Vico Equense. “La rivoluzione contro l’Ape Regina”, parla l’autore Raffaele Vanacore: “Vorrei che restasse il coraggio della libertà”
Vico Equense. Si fa sempre più complesso il rapporto che esiste tra uomo, società e patologia mentale. Raffaele Vanacore, giovane specializzando in psichiatria presso l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, con il libro “La rivoluzione contro l’Ape Regina” si occupa proprio di fare un’indagine scavando nei meandri della psichiatria, svestendola dell’eccessiva retorica per calarla in una dimensione empirica.
In poche parole, si cerca il contatto diretto con la vita e con l’uomo. Una riflessione estesa anche al nuovo modo d’intendere la sofferenza nella società post-moderna che ha creato le condizioni affinché si potesse parlare di nuove forme di “tristezza” e malessere. Come sottolinea lo scrittore Vanacore, queste nuove “ferite interiori” meritano di diritto un riconoscimento ed una soluzione. L’opera rappresenta un’inquadratura “più umana” della psichiatria.
Il testo sarà presentato venerdì 18 alle ore 18:00 presso l’Hotel Aequa a Vico Equense. L’evento è stato organizzato dal Leo Club Penisola Sorrentina con il patrocinio del Lions Club Penisola Sorrentina e del Comune di Vico Equense:
Da quando ha iniziato a lavorare a questo libro?
“Il libro inizia in maniera emblematica: “già da bambino la mia mal celata follia mi portava a scorgere, o forse a sognare, lo scorcio di un mondo migliore”. Si può quindi dire che sin da piccolo ho tentato di portare avanti una ricerca, che ho avuto la fortuna di approfondire con i miei studi, dalla medicina alla filosofia. Il libro è il tentativo di condividere le mie riflessioni”.
Di cosa tratta?
“Si tratta di un’indagine, certo molto acerba ed incompleta, sullo sviluppo della sofferenza, sulle tante rivoluzioni abortite a vantaggio di una comodità personale, di un conformismo eretto a nuova norma. In questi termini, ed a mio avviso, la psichiatria dovrebbe svestirsi dei panni di una normatività assoluta, che non può che condurre al conformismo predetto, per riprendere quelli meno sgargianti di chi si interessa della vita”.
Nell’opera si sofferma sul rapporto tra uomo e società ed in particolar modo sulla patologia mentale. Quanto la società di oggi è responsabile della sofferenza dell’uomo?
“La società odierna favorisce di certo l’emergere e lo sviluppo di numerose forme di sofferenza. La cosiddetta “società liquida”, l’erosione delle grandi narrazioni (dalla politica alla religione, dalla famiglia alla scuola), le nuove frontiere tecnologiche hanno generato una nuova forma sociale nelle quale il soggetto ha difficoltà ad orientarsi. Ciò provoca spaesamento, ansia, rabbia. Tuttavia, non viene a definirsi una relazione lineare in cui è la società che genera la patologia, ma è il modello sociale a plasmare le forme psicopatologiche. La questione – e questo è ciò di cui dovrebbe occuparsi la psichiatria – è che mancano delle risposte di cura e di terapia adeguate. Gli stessi processi che sottendono i cambiamenti sociali pretendono di definire i canoni diagnostici e terapeutici della malattia mentale, lasciando il soggetto in un circolo ridondante da cui difficilmente può uscire”.
Pensa che nel corso del tempo sia cambiato il modo di soffrire dell’uomo o sia stato l’uomo ad aver cambiato il modo di approcciarsi al mondo?
“Ovviamente il modo di soffrire dell’uomo è cambiato: dall’isteria, a partire dalla quale Freud ha messo in piedi il modello psicoanalitico, all’accidia, che colpiva i monaci medievali con un profondo senso di vuoto e di morte, tante forme sono oggi molto meno frequenti. Al contrario, sono sempre più frequenti casi di nuovi modelli psicopatologici: dal gioco d’azzardo ai disturbi alimentari, dalla dipendenza da internet e social network ai casi di disturbi dell’umore nei bambini. Un altro punto cruciale è la tendenza di includere sempre più comportamenti all’interno di un sistema diagnostico, dal lutto alla disforia premestruale, dalle difficoltà d’apprendimento alle difficoltà d’inserimento dei migranti”.
Si sente parlare sempre più spesso di depressione, soprattutto sui giornali, a volte che arriva anche a gesti estremi come il suicidio. Pensa che sia complice anche il sistema eccessivamente nosografico e poco empirico? Quanto davvero la medicina può intervenire sulla patologia della psiche antropologica?
“Come dicevo sopra, c’è la tendenza ad includere nel sistema diagnostico tante forme di tristezza, dal lutto alla disoccupazione, dalla separazione alle problematiche familiari dei bambini. Il concetto però è appunto ciò che vogliamo offrire a queste persone che soffrono. Che tipo di cura abbiamo a disposizione? Che diritti hanno? Ad esempio, il rischio sarebbe che una persona che ha subito un lutto o una perdita di lavoro, se non ufficialmente inquadrata, potrebbe non aver diritto a giorni di malattia dal lavoro o ad un sostegno psicologico pubblico. Ripeto, il punto è che il più delle volte queste nuove forme di sofferenza necessitano di una cura e devono avere il diritto a riceverla. In pratica la questione cruciale è la terapia. Se io ad un paziente che ha subito un lutto o una perdita finanziaria propongo il farmaco o un ricovero, come posso pretendere che stia meglio? Ciò di cui hanno bisogno è la creazione di un legame saldo con il terapeuta e di un sistema assistenziale che si faccia carico della sua sofferenza. La fragilità dei legami è proprio ciò di cui soffre la società odierna. Compito dello psichiatra però è curare il paziente, non la società, fermo restando che il suo valido contributo alle riflessioni sociali non dovrebbe mancare”.
Cosa spinge un uomo ad uccidere?
“Domanda troppo difficile! Ci vorrebbe un altro libro!”.
De “La rivoluzione contro l’ape regina” cosa vuole resti ai lettori?
“Vorrei che resti la speranza che la psichiatria possa tornare ad essere umana. Davanti a noi abbiamo sempre degli esseri umani con il loro mondo, non delle cellule o degli atomi. In poche parole vorrei che resti il coraggio della libertà”.
Alza la voce è un giornale che si occupa della lotta contro la violenza sulle donne e la violenza in genere, in ogni sua forma, anche verso sé stessi. Come pensa, lei da medico, si possa arginare il fenomeno del femminicidio? E’ davvero possibile prevedere i segnali d’allarme?
“Il problema è che molti psichiatri hanno il timore di addentrarsi in questioni spinose, affrontando i sintomi da un punto di vista clinico, ossia del medico che cura a letto il malato. Il terapeuta dovrebbe, in molti casi, avere il coraggio di mettere in crisi il sistema del soggetto, a partire proprio dai legami marci che possono instaurarsi con un partner violento. I centri anti-violenza dovrebbero avere proprio il compito di creare una rete di protezione attorno alle donne che subiscono violenze, donne che in genere hanno paura di denunciare per il timore di trovarsi sole”.
a cura di Annalibera Di Martino