1. Dialogo. Il cristiano, la fede e la “Diciotti”

4 settembre 2018 | 08:39
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1. Dialogo. Il cristiano, la fede e la “Diciotti”

Dice un proverbio arabo: «il frutto della pace è appeso all’albero del silenzio», ma da più parti mi esortano a scrivere il mio pensiero su quanto accaduto, cercherò di farlo analizzando ciò che credo debba essere il comportamento del cattolico in simili frangenti, pur sapendo che: «La fede e la vita cristiana saranno sempre esposte agli attacchi dei nemici, sia interni che esterni. Essere discepoli di Gesù non significa avere protezioni particolari, né essere al sicuro dalle persecuzioni. Chi cammina col Signore non scansa le tempeste» . Poiché l’argomento non potrò affrontarlo in poche stringate righe e necessiterà di vari articoli desidero che sia chiaro che sono aperto a qualsiasi dialogo e confronto, ricordando che scrivo ciò che vivo e in cui credo, ma ciò non mi esonera dall’essere pronto a qualsiasi confronto. Ecco forse quello che manca oggi in politica, ed è mancato nel caso della “Diciotti”, è proprio il dialogo. Da dia-logos, ossia attraverso e oltre le parole. Si fa dialogo incontrando l’altro, a contatto con il prossimo. Il dialogo è un vissuto dialogico. È indossare i panni dell’altro e, nella logica dell’incarnazione, è compassione, ossia sentire, provare, prendere su di sé, la miseria, il peccato, dell’altro. Il dialogo è accoglienza: “Io accolgo te”, cioè un atto sponsale che apre e crea la comunione . Non credo che questo abbia animato le parti in causa: «dialogare non è negoziare» e non lo scrivo io ma colui che è stato contestato anche quando ha dato una svolta alla crisi: «Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. […]. Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e di discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà» . Ma come mai si è giunti a questa forma di chiusura, di rifiuto, di non vedere in quei poveri naufraghi e migranti i nostri fratelli? Edward Said ha coniato una nuova categoria politica e culturale: l’«orientalismo» , per definire il modo in cui (nelle arti, nei libri di storia, nell’informazione) parliamo dell’altro: dello straniero, del lontano, dell’altro “esotico”. Oggi questo “altro” sono le vittime degli effetti perversi della globalizzazione: i migranti, i rifugiati, ma anche coloro che nonostante tutto sono rimasti in Paesi che conosciamo solo per farci le vacanze (e che, quindi non conosciamo affatto). Parliamo di loro con le speculari e ugualmente povere categorie di invasione/minaccia oppure aiuto/assistenza, bisogno/emergenza. L’altro o è un pericolo e va tenuto lontano e combattuto, costruendo muri di mattoni o di pregiudizi; o è un soggetto definito dalla mancanza, quindi un oggetto di intervento, un beneficiario delle nostre generose iniziative, che può solo prendere, e dunque sottrarre. La cosa strana è che ne parliamo, senza lasciarli parlare. Nell’introduzione al suo saggio del 1978, Said cita in esergo una frase di Marx che ben riassume il diktat dell’orientalismo: «Non possono rappresentare se stessi, devono essere rappresentati» . Le rappresentazioni dell’altro diventano “un corpus teorico e pratico”, oggetto di massicci investimenti emozionali: in troppi casi odiare o disprezzare l’altro si trasforma in una marca identitaria, in un pilastro del “noi”.