2. Speranza. Il cristiano, la fede e la “Diciotti”
Il dialogo, se non è una strategia retorica vuota, chiede invece fiducia reciproca, il pensare che l’altro sia portatore di un valore e abbia qualcosa da dire, anche quando non siamo d’accordo. Semplicemente impossibile, nella logica della contrapposizione e dello schieramento che diventa benzina per quella che Peter Sloterdijk ha definito “fobocrazia”, riconoscendo che tutti gli imperi totalitari sono fondati sul potere della paura. Quello che servirebbe, e che i media non dicono né tantomeno invitano a fare, è il movimento opposto: una “ermeneutica diatopica”, che non interpreti l’altro a partire da sé, ma sia capace di decentrarsi e casomai acquistare un nuovo sguardo di sé a partire dall’altro. Dislocarsi rispetto alle proprie categorie, al proprio linguaggio, al proprio dato per scontato è qualcosa che non solo non fa perdere identità, ma consente di appropriarsi più in profondità di ciò che si credeva di sapere, e di coglierne pienamente il valore. Quello che i medi non riescono a veicolare è, al di là dell’ottimismo e pessimismo che sono prodotto di astrazione, la speranza. Che non è, come scriveva Vaclav Havel , la certezza che le cose andranno bene, ma che possono avere un senso . E noi cristiani dovremmo saperlo bene perché la speranza guidava gli ebrei nel deserto. «Normalmente, senza sbagliare, si dice il Dio dell’esodo, intendendo così il protagonista dell’evento che soppresse nelle acque del mare (cf. Es 14) chi teneva schiavo Israele, suo primogenito (cf. Es 4,22). Fu talmente possente quel fatto da tramutarsi in una fondazione . E fu talmente fondativo quel passaggio che, in quel giorno, i grembi delle donne incinte si fecero tersi nientemeno che come cupole di cristallo, perché i feti costatassero con i loro occhi la meraviglia di Dio e persino i figli dei figli la contemplassero : il braccio dispiegato del Dio dell’esodo era all’opera . A pensarci meglio il Dio dell’esodo sarebbe il Dio che è l’esodo. L’identità di Dio è legata a quell’evento a tal punto ch’egli stesso è tale, un continuo esodo, un uscire sempre, un pastore perpetuo che si avvia sule vie della perdizione pur di recuperare la pecora fuggita e ci sta finché non l’ha ritrovata (cf. Lc 15,4-7). Ecco il suo scopo, la sua meta. Uno dei nomi di Dio, dunque, è “esodo”. Le vesti d’Israele non si sono logorate né i suoi piedi si sono gonfiati nella traversata esodale (cf. Ne 9,21; Dt 8,4), perché hanno goduto della protezione divina. Quelli di Dio, invece, sì. Se Dio avesse scarpe, sarebbero forate, e se indossasse vesti, sarebbero consunte. L’instancabile Dio esodale! Certamente, il grido di dolore dei suoi figli ridotti a schiavi dal faraone sale sempre al suo volto e Dio non resta indifferente, anzi si mette immediatamente in esodo, perché le sue “viscere di misericordia” sobbalzano (rachãmim [cf. Os 2,21; Sal 40,12; 145,8; soprattutto Is 49,14-15]). Al pianto dell’umanità, Dio si ricorda che la sua natura è esodalmente misericordiosa (cf. Es 2,23-25)» . Talmente misericordiosa da sembrare paradossale essendosi chinato fino all’estremo.
Aniello Clemente