7. Una “cultura dell’incontro”. Il cristiano, la fede e la “Diciotti”

12 settembre 2018 | 10:00
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7. Una “cultura dell’incontro”. Il cristiano, la fede e la “Diciotti”

In questa diversa situazione non basta più pensare alla chiesa maestra, depositaria di una dottrina immutabile, né è sufficiente richiamarsi alla sua valenza misterica come corpo di Cristo e tempio dello Spirito. Corrisponde meglio alle necessità dell’uomo contemporaneo l’immagine di chiesa adoperata da papa Francesco come “ospedale da campo”, come una “mamma inquieta”. Si tratta di un linguaggio che denota una congiuntura d’apprensione e d’emergenza, qual è indotta dal disagio e dal disorientamento dell’uomo postmoderno, senza più utopie che lo sostengono, senza più fiducia nemmeno in se stesso . Papa Francesco parla di “cultura dell’incontro” anche per mettere in risalto che, per giungere a questa prassi di ascolto reciproco e di scambio fiducioso, serve un impegno serio, intellettuale e affettivo, da parte di tutti. Pur essendo una dimensione fondamentale dell’uomo, insita nel suo essere più intimo, la tensione all’incontro con l’altro deve essere coltivata nel tempo e resa consapevole, fatta crescere nei suoi fondamenti profondi e negli atteggiamenti che essa richiede. La cultura dell’incontro si impara più dalla vita che dai libri, ma va comunque posta a tema e approfondita anche nei suoi risvolti politici, economici, scientifici. Di fronte alla “cultura dell’incontro”, infatti, si erge ben chiara la “cultura dello scarto”, che anche in ambienti formativi e scolastici può trovare spazio, incoraggiando logiche di competizione esasperata o replicando meccanismi di esclusione di cui vediamo gli esiti nella nostra società. Il mondo di oggi conosce infatti il tragico paradosso di aver superato vecchie frontiere e inimicizie e allo stesso tempo aver innalzato nuove barriere, non solo fisiche ma anche di conoscenza e di accesso al sapere . Ricordava papa Francesco che «la fede non limita mai l’ambito della ragione, ma lo apre a una visione integrale dell’uomo e della realtà, preservando dal pericolo di ridurre la persona a “materiale umano”» . A riprova che quanto ho scritto ha un valore etico universale e non dettato da una fede ricordo quanto scriveva Erich Fromm: «Dare è la più alta espressione di potenza. Nello stesso atto del dare, io provo la mia forza, la mia ricchezza, il mio potere. Questa sensazione di vitalità e di potenza mi riempie di gioia. Mi sento traboccante di vita e di felicità. Dare dà più gioia che ricevere, non perché è privazione, ma perché in quell’atto mi sento vivo; amare è più importante che essere amato». Lo so è difficile mettere in pratica tutto questo ma la tenerezza e la gentilezza non sono segni di debolezza e di disperazione, bensì manifestazione di forza e determinazione e le persecuzioni non fanno soffrire il giusto, né egli è distrutto dalle oppressioni, se si trova sul lato giusto della verità. Socrate sorrideva bevendo il veleno; e Stefano faceva lo stesso mentre lo lapidavano. Ciò che fa davvero male, è la nostra coscienza che soffre se le siamo contro, e muore se la tradiamo (K. Gibran). Mai dimenticare che «per essere se stesso, ognuno ha bisogno dell’altro» .
Aniello Clemente