Sparato un gabbiano a Sorrento: vola ancora Gabbian Kirk Maynard
Un gabbiano volteggia su via degli Aranci, distende le zampette palmate, si tende per imprimere alle ali una torsione per consentirgli di volare lento, il vento è un fruscio lieve intorno a lui… Bang! Non fa in tempo a spegnersi l’eco dello sparo che gli si arruffano le penne, entra in stallo e precipita. Non è uno scena di un film: è accaduto l’altro giorno a Sorrento, un folle, un cretino, un incivile, trovate voi il termine adatto, ha sparato a un gabbiano. Quasi tutti conoscono la prima parte della frase: «Stanno passando brutti tempi…», ma pochi sanno che si conclude così: «ma se ne preparano di peggiori». Vista la “barbarie” che ci circonda se non si pone un freno, sono certo che i costumi, la morale, la convivenza civile, potrebbero degenerare. Questa diffusa follia è dovuta alla mancanza di “senso”. Tutti, giovani ed anziani, ricchi e poveri, abbiamo bisogno di dare un senso alla nostra vita. Un senso quale che sia, uno scopo, una ragione. Si sta vivendo il dramma di una percezione della vita come “cammino senza meta”. Questa è la radice dell’atteggiamento di disperazione che attraversa la vita di tanti. S. Kierkegaard già nel 1845 capì che togliendo una meta alla vita gli uomini si sarebbero gettati sul presente amplificando la ricerca e il godimento dei beni materiali come sostitutivo di una destinazione smarrita. Ci sono comportamenti nell’uomo sui quali influiscono un insieme di fattori che innescano reazioni non controllate. Quando agisce per istinto è una «bestia». E così definisco chi ha sparato l’altro giorno a un gabbiano in via degli Aranci nella civile e bella Sorrento. A volte succede che chi agisce così è perché lo vuole, è determinato a fare il male. Cosa succede a questi cervelli? Come mai scatta la molla della violenza e della prepotenza? «Chi non soffre nell’anima non si accorge di averne una», dice giustamente Mitscherlich. Già da tempo prevale il fare “quello che sento”, quello che mi piace e ciò non giova di certo al bene di tutti. Un po’ alla volta, in questi ultimi anni,
il pessimismo e la debolezza hanno avuto molti seguaci. Certo la modernità, il progresso, abbaglia i tanti che si affidano alle luci artificiali delle apparenze. Il futile, il superfluo, l’apparire, diventa cultura. Se questi sono i “valori” oggi in auge è logico che si ripercorre la strada di Dorian Gray: fragili, pavidi, insicuri, relegano le loro anime in soffitta ben sapendo che quando le vedranno, inesorabilmente, saranno portati al suicidio. D’altra parte non basta conoscere il senso della vita per avanzare lungo la strada: molti sanno dare ottimi consigli, ma non sono capaci di fare un passo per migliorarla. Possiamo anche considerare poca cosa tutto ciò di cui disponiamo e tutto ciò che facciamo. Questo non significa disprezzare ciò che ci è stato donato. Anche il poco che abbiamo ha molto valore se sappiamo farlo crescere. C’è bisogno di legalità, ma la legalità è legame, nasce dagli affetti, proprio là dove il desiderio si confonde col bisogno e scavalca il diritto. Non è un problema di comunicazione e informazione. L’illegalità è l’espressione di «legami distorti», camorristici, di una cultura che vive più vicina a noi di quanto non sia lontana negli spari delle tante “Scampia”. La regola, e qui Socrate giganteggia, è ricercare un nuovo rapporto tra legalità e legami, sapendo che non basta riformare, informare e comunicare, ma che occorre restituire la parola e dialogare. Socrate possedeva un grande coraggio morale, insegnò che ogni lodevole comportamento ubbidisce all’intelletto, che le virtù consistono, in fondo, del prevalere della logica sul sentimento; che la temperanza è una rotta a mezzo tra l’astinenza e l’indulgenza, stabilita dal timoniere che chiamiamo ragione. E allora a nome del gabbiano noi diciamo con Cicerone: «Iustitiam quaerimus, rem omni auro cariorem» (Ricerchiamo la giustizia, cosa più preziosa di ogni ricchezza), anzi la invochiamo noi umani perché il gabbiano lo ha già perdonato. Perdonare è un gesto di magnanimità. Lo attendiamo dagli uomini generosi, lo invochiamo da Dio per le nostre mancanze. L’opinione comune ritiene che il perdono debba essere preceduto da un pentimento, da un cammino di conversione, da un serio proponimento di emendarsi. E allora quando sarà preso l’autore dello sparo che sia condannato a leggere Il gabbiano Jonathan Livingston e a commentarlo nelle scuole di ogni ordine e grado della Penisola e allora scoprirà chi era quel gabbiano al quale ha sparato: Jonathan Livigston o Sullivan, oppure l’Anziano e saggio Ciang o il giovanissimo Fletcher Lynd; o gli ultimi “ribelli” Henry Calvin, Martin William, Charles-Roland, Gabbian Terence Lowell. E scoprirà che anche se lo ha ridotto come Gabbian Kirk Maynard dall’ala rotta, sentirà ancora Jonathan che gli dice: «Maynard, tu sei libero di essere te tesso, questa è la libertà che hai, adesso e qui, e nulla ti può essere d’ostacolo». Semplicemente, allora, Kirk Maynard allargò le ali, così, senza il minimo sforzo, e si levò nel cielo oscuro della notte gridando a squarciagola la sua gioia, al di sopra della cattiveria e stupidità di un uomo indegno di tale nome.
Aniello Clemente.