Istantanee di Erchie negli anni sessanta. L’Album dei Ricordi

22 novembre 2018 | 14:36
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Istantanee di Erchie negli anni sessanta. L’Album dei Ricordi

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Il Delegato di Spiaggia

Il signor Delegato di Spiaggia stava a Cetara ma era a Erchie che i paranzari venivano a rubare la sabbia della spiaggia. La paranza era una grossa imbarcazione di legno con una profonda stiva per il trasporto della sabbia. Veniva ormeggiata parallelamente alla spiaggia e una stretta passerella in legno veniva buttata dalla paranza verso la spiaggia.

I paranzari, scuri e magri come pirati dei Caraibi, lavoravano di buona lena: due di loro con zappe riempievano velocemente i cofani di sabbia, altri quattro o cinque facevano di corsa avanti indietro sulla passerella con i cofani in spalla per scaricare la sabbia nella stiva. Ma anche lavorando di corsa ci voleva sempre un paio d’ore per caricare la stiva.

Una volta il Delegato di Spiaggia di Cetara arrivò sulla spiaggia di Erchie quando la stiva della paranza era ancora piena a metà. Autoritario ed elegante nella linda uniforme bianca ordinò a tutti di fermarsi e convocò il capitano della barca per mettere sotto sequestro la paranza. Mentre il capitano collaborava disciplinatamente mostrando i documenti della barca, i paranzari ritiravano la passerella e toglievano gli ormeggi.

La barca si era staccata dalla riva solo di qualche decina di metri quando il capitano, recuperate lestamente le carte dalle mani del Delegato, si dette alla fuga lungo il bagnasciuga verso gli scogli della Torre. “Alt” gridò il Delegato “Fermo o sparo”. Dopo aver ripetuto l’intimidazione per tre volte, visto che il capitano persisteva nella fuga, estrasse la pistola dalla fondina e sparò due colpi in aria. Il capitano non se ne curò e continuò a correre come se avesse le ali ai piedi. In un attimo fu sulla punta degli scogli della Torre e, con tutta calma a questo punto, salì sulla scialuppa che intanto era stata messa in mare dalla paranza.

Dopo qualche settimana le paranze ripresero a venire a Erchie a rubare la sabbia della spiaggia. Per fortuna la spiaggia non ne risentiva più di tanto grazie al brecciame che, ogni giorno, veniva scaricato in mare dalla cava.

Il profumo dei limoni

Quando in primavera si toglievano le coperture di frasche che avevano protetto i limoni nella stagione invernale, il profumo dei fiori di limone inondava il paese di Erchie.

Allora, tolte le frasche, la conca pianeggiante al centro del paese era un’unica distesa di verde intenso con le case bianche disposte ai bordi sui primi declivi della montagna. I limoneti erano il cuore di Erchie: il terreno agricolo nella parte centrale del paese, dalla spiaggia fin sopra il Luvito era coltivato a limoni. C’era il limoneto di Don Ciccio, poi quello delle Signorine, un po’ di lato quello del Priore e, più indietro nella vallata, sotto la Mola, quello di Don Arturo.

Poi c’erano i limoneti sopra la Turina, i più difficili da curare perché ci si arrivava solo a piedi arrampicandosi lungo un irto sentiero per una quindicina di minuti. Qui tutto doveva essere portato a spalla sia in salita, sia in discesa. Venivano a Erchie a faticare la giornata nei limoni anche dai paesi vicini, da Cetara, da Maiori e anche da Fuenti.

In autunno si potavano le piante togliendo il secco, si piegavano le bacchette nuove legandole alle pertiche e infine si stendevano le coperture di frasche di leccio per proteggere le piante dai rigori invernali. I limoni non facevano solo la ricchezza dei padroni dei limoneti ma erano anche un mezzo di sostentamento per decine di famiglie della costa.

Quando in primavera inoltrata c’era la raccolta dei limoni, zì Peppe, sopra la Turina, tirava fuori dal polveroso stipetto appeso in cantina un consunto quadernetto nero e una matita spuntata. I limoni raccolti venivano depositati delicatamente nell’angolo vicino alla peschiera e qui veniva fatta la pesatura in presenza del sensale e di zì Peppe. Con la grande stadera sulle spalle di due braccianti si pesavano le sporte piene di limoni. Zì Peppe segnava il peso sul quaderno nero e la sporta piena veniva caricata sulle spalle di una delle ‘femmine’, come sbrigativamente venivano chiamate, che facevano il trasporto a valle.  Queste donne erano in grado di portare a spalle una sporta di limoni pesante fino a sessanta chili e potevano fare su e giù dalla Torina per decine di volte al giorno!

Trasene ‘e quaglie

Nel mese di maggio a Erchie, dal mare, arrivavano le quaglie. “Trasene e quaglie” si diceva.  Arrivavano all’alba in piccoli gruppi volando radenti sul mare e acquattandosi subito, immobili, tra i cespugli sugli scogli per riprendersi dalla faticosa traversata. Si riposavano per un giorno e la notte successiva ripartivano verso le zone di nidificazione.

Le povere bestiole arrivavano in vista della costa stremate dalla fatica ma il peggio le aspettava proprio nel momento in cui, finalmente, la traversata era finita. Innanzitutto c’era il falco pellegrino appollaiato sulle alte rocce bianche delle falesie a picco sul mare. All’arrivo del volo di quaglie il rapace si buttava in picchiata ma non sempre riusciva a ghermirne una. Il più delle volte tramortiva nell’impatto il piccolo volatile che cadeva in mare. E così capitava che Fernando il pescatore, che era uscito in mare all’alba ‘arrete o tummene’, a tirar su le reti, tornasse a casa con qualche quaglia nel cassetto dei pesci.

Ma le sfinite quaglie dovevano fare i conti con altri e ben più temibili nemici: una schiera di animali della specie ‘homo sapiens’ era in attesa lungo la costa. Armati di doppietta, questi ‘animali’ bipedi erano disposti strategicamente lungo la costa pronti a far fuoco contro le povere e stremate creature. L’arrivo delle quaglie era salutato da una batteria di spari che vivacizzava le albe di Erchie nel mese di maggio. Nonostante tutto, qualche quaglia riusciva a raggiungere la terraferma e a nascondersi.

Definitivamente salva? Neanche per idea.

Nel pomeriggio cominciava la caccia con il cane per scovare le poche quaglie rimaste acquattate tra i bassi cespugli dei dirupi della costa. Povere bestiole.

E’ arrivato ‘o vapore

Non appena sbucava dalla punta del Tommolo, la motonave Jason, ‘o vapore, come veniva chiamato, suonava tre suoni prolungati di sirena per far sapere a tutti “sono arrivato  …  jamme belle … venite a caricare”.

Buttata l’ancora e tesa la cima verso la boa, la motonave veniva ormeggiata parallelamente agli scogli, sotto la tramoggia, agendo sulle cime di prua e di poppa date di volta alle bitte sugli scogli. Intanto, udito i suoni profondi della sirena, sopra la Turina, ma anche a Fontanelle e perfino sopra la Cullata verso Cetara, i contadini sospendevano i lavori agricoli e si affrettavano verso il Tommolo per guadagnarsi la giornata caricando il vapore. Chi non arrivava in tempo correva il rischio di trovare i posti di carrellisti già tutti assegnati e di doversene quindi tornare a lavorare nei terreni.

Il vapore era caricato con le rocce strappate dalla montagna della cava sopra gli scogli del Tommolo. Tutto si svolgeva di corsa. Caricato il grosso carrello ferroviario sotto la tramoggia di carico, due carrellisti lo spingevano a mano lungo i binari per un centinaio di metri fino alla tramoggia di scarico. Qui il carrello veniva ribaltato e le rocce erano scaricate, attraverso la tramoggia, direttamente nella stiva della nave. Una decina di carrelli correvano contemporaneamente sulle rotaie dei binari quindi non era permesso il benché minimo errore o rallentamento. Per riempire la stiva la corsa dei carrelli continuava ininterrottamente per sei, sette ore. Il vapore allora toglieva gli ormeggi e, salpata l’ancora, partiva per Bagnoli dove le rocce venivano usate per la produzione di ghisa negli altiforni dell’Ilva.

Minatori  rocciatori

I minatori rocciatori arrivavano molto presto al mattino per andare a lavorare alla cava del Tommolo. “Vanne a faticà ncoppe ‘o tummene” si diceva. Alcuni erano di Erchie ma la maggior parte veniva da fuori, da Maiori, Minori, Cetara.

Il loro era un lavoro duro e pericoloso. Salivano sull’alta parete verticale di roccia con la tecnica dell’arrampicata alpina con corde e chiodi di sicurezza. Il lavoro vero e proprio cominciava una volta saliti alla quota dove si dovevano preparare i fornelli o fori di mina. Agganciati alle corde, sospesi sul vuoto in equilibrio precario su appoggi incerti, i minatori dovevano avere forza fisica e esperienza. Si trattava di creare un foro cilindrico di cinque centimetri, profondo più di un metro, perforando la roccia con mazza e fioretto. Sul dirupo alto oltre cinquanta metri, i minatori lavoravano in coppia: uno manovrava il fioretto, l’altro batteva la pesante mazza di cinque chili.

Una volta completato il foro di mina, i minatori vi introducevano la carica di esplosivo, adattavano l’innesco e chiudevano il foro con l’intasatura. A mezzogiorno in punto si sparavano le mine preparate nella mattinata. Un suono lungo di sirena precedeva le esplosioni per avvertire tutti del pericolo. Siccome non era raro che qualche pietra cadesse in mare, i pescatori che si trovavano vicino gli scogli si allontanavano prontamente. Anche i ragazzi che giocavano o facevano il bagno tuffandosi dagli scogli, al suono della sirena correvano al riparo in qualche anfratto gridando “sparano ‘e mine”. Qualche minuto dopo l’avvertimento, cinque o sei mine venivano fatte esplodere in rapida successione. Grossi pezzi di roccia cadevano sull’ampio spiazzo alla base della cava e una nuvola di polvere veniva trasportata dal maestrale verso la spiaggia e le case del paese. Un secondo suono di sirena avvisava del fine pericolo.

Dopo la pausa pranzo, all’una si riprendeva le stesso ciclo: arrampicata in parete, preparazione dei fornelli, carica dell’esplosivo e, infine, alle cinque in punto, per concludere la giornata lavorativa, suono della sirena e solita salva di esplosioni.

Arrivano i “signori”

I signori che affittavano le case di Erchie per le vacanze estive arrivavano tutti insieme il primo luglio con la donna di servizio al seguito. Nel pomeriggio si scaricavano i bagagli dalle macchine e il giorno dopo … tutti in spiaggia.

Per la verità alcuni signori, come il commendator Fabbri e il notaio Amarano, si erano fatti costruire le loro belle case e potevano venire a Erchie tutto l’anno.

Prima dell’estate, nei mesi di maggio e giugno, a Erchie arrivava solo qualche famiglia di turisti stranieri, in genere tedeschi. Ma i mesi di luglio ed agosto erano riservati alla buona borghesia italiana proveniente da Napoli e da Roma. Famiglie di avvocati, dottori, dentisti, professori e imprenditori venivano ogni estate a Erchie per fare un mese o due di vacanza al mare. Di anno in anno affittavano sempre gli stessi appartamenti, frequentavano lo stesso lido e prendevano sempre lo stesso ombrellone possibilmente in prima fila. I ragazzi dei villeggianti riprendevano i flirt interrotti alla fine dell’estate precedente, il paese si animava e un’atmosfera di festa riempiva l’aria.

La giornata dei villeggianti cominciava alle otto in punto con l’Ave Maria di Schubert che veniva messa a tutto volume sul bagno di Rafele, il lido Adriana. Le note dolci e melodiose della preghiera arrivavano dappertutto, perfino sulla Turina. C’era poi il pescivendolo che veniva con il suo furgoncino da Cetara e che girava per il paese gridando con voce cantilenante “o pisciaiolo! ‘e pisce frische”. Verso le dieci, i villeggianti cominciavano a scendere in spiaggia e il jukebox del Lido Adriana faceva partire la colonna sonora della giornata al mare con le note delle canzoni del momento: Voce ‘e notte di Peppino di Capri, Riderà di Little Tony, Abbronzatissima e i Vatussi di Edoardo Vianello, Sapore di sale di Gino Paoli, il Cielo in una stanza cantata da Mina e l’immancabile Cuore di Rita Pavone.

Era bellissimo stare in spiaggia al mattino: il mare azzurro e limpido, il sole caldo, l’aria tersa e asciutta, il maestrale che ancora non si era messo a soffiare forte ma cominciava a increspare appena la superficie del mare, le famiglie a chiacchierare tranquillamente sotto gli ombrelloni, i più giovani a tuffarsi o giocare a pallone sul bagnasciuga. Un’atmosfera di calma e serenità aleggiava su tutta la spiaggia e gli eventi si susseguivano secondo la consueta routine giornaliera. Il commendator Fabbri partiva con il suo piccolo motoscafo per Cetara a comprare il solito pacco di giornali, il notaio Ammarano cominciava la spola con il suo fuoribordo tra la spiaggia di Erchie e le spiaggette vicine. Qualche coppia prendeva in affitto una delle iole di Baffone per raggiungere spiagge più esclusive e riservate. Fernando, Mandino e Biagio, dopo aver tirato su le reti, arrivavano sulla spiaggia con il pescato e i più fortunati o i soliti raccomandati si affrettavano a comprare il pesce fresco appena pescato. Anche Ciccio ‘astone veniva con la sua barchetta da Cetara per vendere il pesce sulla spiaggia sotto la Torre.

Verso le undici il jukebox del Lido Adriana si fermava per un attimo e dall’altoparlante arrivava l’annuncio che tutti i bambini aspettavano: “Sono arrivate le zeppole calde!”.

La vita serale di Erchie era abbastanza animata ma tranquilla, a misura di famiglia. La colonna sonora serale veniva proposta dal jukebox dello chalet Arcobaleno, la ‘pista’, come veniva chiamata perché si poteva ballare su un’ampia pista circolare. La privacy dei clienti era protetta da cannucce e teloni che circondavano lo chalet da tutti i lati e i ragazzi si accontentavano a fare ‘muretto’ sul piccolo ponte di lato alla pista.

Più tardi nella serata, l’aria che sapeva di mare, si arricchiva del profumo della pizza di Federico.

Gianni e Stefano

Gianni e Stefano erano nati e cresciuti a Erchie ed avevano condiviso tutte le esperienze dei ragazzi del paese. Da giugno a settembre, abbronzati, snelli e agili come gatti, con solo i pantaloncini o il costume da bagno, correvano a piedi nudi su e giù per gli scogli appuntiti per fare padelle e cozze o per cercare di prendere la murena o il polpo dagli scogli sotto la Torre, dietro Caugo.

Da ragazzi erano andati insieme sugli scogli della pietra di Francescone per prendere con la rete i piccoli cefali che nuotavano nelle pozze d’acqua sugli scogli e insieme erano andati sulla Torre a spiare le coppie di innamorati che amoreggiavano sulla spiaggia dietro Caugo. A volte si erano contesi, litigando, i pesci che affioravano in superficie storditi dalle bombe che Dante, il bombarolo di Cetara, sparava in mare sulla punta della Torre o del Tommolo.

Crescendo, la loro amicizia si era consolidata e durante l’estate, negli anni delle superiori, si guadagnavano qualcosa andando a pesca insieme. La loro specialità era la pesca del polpo con lo ‘specchio’. Ad un bidone metallico di 50 litri venivano tolti i due fondi e su uno dei due lati veniva fissato un vetro, lo ‘specchio’. La tecnica di pesca con lo specchio era concettualmente semplice ma richiedeva molta esperienza e un occhio infallibile. Era Gianni che, steso di pancia sulla poppa della barca, si ficcava con la testa nel bidone, a scrutare il fondo marino attraverso lo specchio e le limpide acque. Stefano era ai remi e vogando molto lentamente seguiva le indicazioni di Gianni: mano destra, vai a destra; mano sinistra, a sinistra; un tocco sulla testa, fermo qui.

Il fondale marino della costa nei pressi di Erchie era una meraviglia a vedersi con la maschera o lo specchio. Nell’insenatura della spiaggia di Caugo, dietro la Torre, le rocce bianche ricoperte di ricci si alternavano a banchi di posidonia, anfratti, tane nascoste e fondo ghiaioso: l’ambiente ideale per i polpi.  Per via dell’alta costa, il fondale marino scendeva rapidamente a profondità di cinque, dieci metri ma usando lo specchio era sempre possibile vedere chiaramente il fondo attraverso le acque cristalline. Anzi, a volte sembrava che l’acqua non esistesse proprio e, nuotando con la maschera, si veniva colti dalle vertigini come quando ci si trova sull’orlo di un precipizio. La sensazione era di essere sospeso in aria sulle rocce del fondo e sui pesci multicolori. Anche con le acque limpide, riuscire a vedere un polpo, campione dell’adattamento cromatico, non era per niente semplice. Il paesaggio molto vario del fondale fatto di rocce, alghe, secche e anfratti certo non era di aiuto. Gianni, però, conosceva a memoria ogni metro quadrato del fondo marino, ogni sasso che potesse ospitare una tana. Individuato il polpo bastava muovere la ‘purpara’ davanti la tana e il gioco era fatto: il polpo balzava sulla purpara ed era relativamente semplice portarlo a bordo.

Dopo un paio d’ore di pesca, i due amici tornavano a riva ogni giorno con decine di polpi che vendevano ancora vivi direttamente ai bagnati sulla spiaggia.

Angela

Angela era di Roma.

Veniva ogni estate a Erchie a villeggiare con la famiglia da quando aveva cinque anni. A sedici anni Angela era bellissima e tutti i ragazzi ne erano un po’ innamorati. A Erchie, in quel luogo magico, viveva il suo eterno presente, felice di quella istantanea che la ritraeva come una ragazza sana, giovane, benestante e amata da tutti. Le sembrava che quelle virtù sarebbero state tutte frecce infallibili per centrare l’obiettivo di un futuro felice. Aveva un aspetto raggiante: era l’espressione della gioia e della spensieratezza quando scendeva in spiaggia lungo le scale della Chiesa mentre sul jukebox del lido andava, a tutto volume, ‘Sapore di sale’ di Gino Paoli.

Angela era corteggiata da tutti i figli dei ‘signori’ che venivano a villeggiare a Erchie. Anche Enrico era innamorato di Angela ma non aveva il coraggio di rivaleggiare con i corteggiatori forestieri: si accontentava di un sorriso e uno sguardo di Angela. A volte, per vederla, Enrico si appostava in fondo alle scale per vederla scendere in spiaggia e il cuore gli saltava in gola se appena appena riusciva ad incrociare il suo sguardo. Angela non era indifferente ad Enrico e ricambiava gli sguardi e i sorrisi. Di Enrico le piaceva quello sguardo caldo e profondo ma non gradiva la sua riservatezza e timidezza. Lei, una ragazzina di città, non poteva comprendere il subbuglio e le aspirazioni di un giovane nato a Erchie, luogo che lei viveva solo nella luce estiva e vacanziera. Anche d’inverno lei pensava a quel luogo solo come lo scrigno prezioso di un carillon che conteneva i suoi sogni pieni di amore e di progetti. Non conosceva le solitudini degli inverni, le piogge, le giornate uggiose, le poche opportunità ed i pochissimi diversivi che si prospettavano ai giovani del paese.

Enrico e Angela

Tutta l’estate Enrico aveva provato i tormenti dell’amore adolescenziale: l’euforia per un sorriso di Angela, la depressione più nera quando lei scherzava e rideva con gli altri. Con lei era tutto un scambio di sguardi intensi e sorrisi languidi, niente di più.

Era una di quelle bellissime giornate d’estate quando Enrico decise di dichiararsi a Angela. Il mare limpido e immoto con solo un filo di maestrale a incresparne la superficie, la spiaggia inondata dal sole con i bagnanti distesi placidamente al sole, i giovani a giocare a pallone e a sguazzare nell’acqua. Dal jukebox a tutto volume del lido Adriana, la canzone ‘Cuore’ di Rita Pavone inondava la spiaggia con il suo ritmo cadenzato e coinvolgente. Enrico sapeva che Angela era con il solito gruppo di amici in fondo alla spiaggia vicino agli scogli ad una decina di metri dalla battigia. Aveva deciso di incontrala da sola per parlarle e si era incamminato lungo la battigia verso di loro.

Era arrivato con il cuore in gola ad una decina di metri dal gruppo di ragazzi e, come aveva sperato, Angela, vedendolo arrivare, si era alzata e si era avviata verso il mare con l’evidente intenzione di incrociarlo sul bagnasciuga.

Mentre si avvicinava all’inevitabile, fatale incontro, Enrico, per farsi forza, urlava dentro di se: “Questa volta glielo dico: ti voglio bene, ti penso sempre, sei tutto per me. Lo dirò tutto di un fiato senza fermarmi. Questa volta lo faccio!”

Enrico rivede la scena al rallentatore: gli splendidi occhi verdi di Angela gli sorridono ben prima di incrociarlo. “Sono innamorato pazzo … questa è la felicità “  … pensa. Il battito del cuore ormai fuori controllo, la gola secca, come ipnotizzato dai suoi occhi verdi …  incrocia Angela … e passa oltre senza dire una parola.

Daniele

Daniele era figlio di un noto chirurgo di Napoli. Era il primo anno che la sua famiglia veniva a villeggiare a Erchie ma già era diventato popolare nel gruppo dei villeggianti.

Daniele era intelligente, curioso, brillante: non c’era argomento o situazione che non attirasse il suo interesse appassionato. Era informato su tutto e sapeva di tutto, ma in questo era semplice e mai presuntuoso. Raccontava teorie o storie con lo stupore di un bimbo che ha scoperto una cosa preziosa ed ha urgenza di condividerla, coinvolgeva i suoi ascoltatori con continui esempi e li incoraggiava a sviluppare con lui quel pensiero, quel sogno, quel gioco! Era un leader, un trascinatore per i suoi coetanei. Daniele era anche un bel ragazzo: alto e snello, di carnagione ambrata, capelli e occhi scuri. Era agile e spericolato: riusciva ad arrampicarsi sugli scogli attaccando passaggi che solo lui riusciva a superare. Affrontava ogni sfida fisica con sicurezza, scioltezza e baldanza. Quel suo grande entusiasmo, sicuro e sfrontato, leggero ed ottimista conquistava tutti, soprattutto le ragazze.

Era destino che Daniele e Angela si mettessero insieme.

Angela e Daniele

Quando Daniele le aveva detto che voleva mettersi con lei, Angela si era sentita al settimo cielo. Ricorda la prima volta sulla spiaggia, al chiaro di luna, tra due barche tirate a secco. Non era stata una cosa sconvolgente. Ricorda l’impaccio, l’imbarazzo e la breve fitta di dolore ma anche la gioia e il piacere di tener stretto ed accarezzare il corpo di Daniele come aveva sempre sognato di fare. Poi, con il tempo, fare l’amore era diventato un’esperienza magica. L’adorazione senza fine che provava per Daniele la stimolava a dargli piacere in tutti i modi ma al tempo stesso aveva imparato a conoscere il proprio corpo e a lasciarsi andare all’appagamento fisico.

Stare con lui la faceva sentire invincibile, intelligente, unica per bellezza e sex appeal. Per due anni Angela si era sentita la ragazza più felice del mondo.

Poi tutto era finito all’improvviso.

La chiamata

Durante il viaggio in macchina da Roma a Erchie Angela era emozionatissima ed eccitata.

Non vedeva l’ora di abbracciare Daniele, di stringerlo, di baciarlo e di fare l’amore con lui. Ma Daniele non era sulla strada ad attenderla come le altre volte. Era corsa in spiaggia dove era sicura di trovarlo al Lido Adriana. Infatti Daniele era lì e, vedendola, le era corso incontro per abbracciarla.

Per mano l’aveva condotta ad un tavolino isolato dicendo “dobbiamo parlare”. Angela con il cuore in gola aveva ascoltato in silenzio. “Negli ultimi mesi ho avuto molto tempo per pensare e riflettere sul senso della vita. Mi sembra impossibile che noi siamo qui per tirare a campare, ridere, scherzare, lavorare, fare sesso, invecchiare e morire. Non ci credo che sia tutto qui! Non ho mai pensato a Dio ma adesso comincio a pensarci e a farmi domande. Durante l’inverno ho molto letto e riflettuto e ho capito che quello che cerco non è più vicino di quando ho cominciato a cercare. Non trovo risposte, mi sento inquieto e molto ignorante.” Daniele fissava Angela con quei suoi occhi stranamente neri che, in quel momento, parevano guardare dentro anziché fuori di lui.

“La settimana scorsa ho incontrato Padre Nicola, ti ricordi di lui? Mi è sembrato che leggesse nel mio cuore e capisse il mio tormento. Mi ha detto di conoscermi meglio di quanto io conoscessi me stesso e che la distanza che mi separa dalla fede non supera lo spessore di un foglio di carta. Mi ha poi invitato a trascorrere l’estate nel suo convento a Pietrasanta” Dopo una pausa che a Angela era sembrata eterna, Daniele aveva ripreso: “Ho accettato e parto lunedì prossimo. Padre Nicola sarà la mia guida spirituale, lavorerò nei campi con i fratelli laici e potrò usare la biblioteca del convento per studiare”. Così era finita la loro storia d’amore.

Angela aveva saputo poi da amici comuni che, finita l’estate, Daniele era entrato in seminario.

Tonino, Nerone e gli zampognari

Nerone, un Gordon Setter dal lucido pelo nero, era il cane di Tonino.

Nerone era bellissimo, un esemplare perfetto, armonioso, elegante, ma soprattutto coraggioso, molto energico e vitale. La sua corsa al galoppo, sciolta e velocissima, era uno spettacolo a vedersi. Come pure la sua capacità di fare salti e di arrampicarsi su terreni scoscesi. Tonino era molto legato a Nerone. Oltre che amico e compagno di gioco, Nerone era per lui un complice nei rapporti familiari dominati dalla figura autoritaria del padre. Bastava uno sguardo accigliato e severo di Ciccio per incutere in entrambi soggezione e timore … l’obbedienza immediata e incondizionata non era un optional né per Nerone, né per Tonino.

Nerone aveva un carattere buono e affettuoso, odiava solo gli zampognari che venivano a Erchie dal Cilento prima di Natale per suonare la novena nelle case. Nel pomeriggio dei giorni dell’Avvento, gli zampognari facevano il giro del paese nei loro abiti tipici di pastori cilentani per suonare la triste melodia, il ‘tu scendi dalle stelle’, davanti ai presepi che erano fatti in ogni casa.

Verso le quattro del pomeriggio Nerone si appostava in un punto dominante del paese e osservava da lontano i movimenti di casa in casa degli zampognari che, per venire a casa di Tonino, dovevano passare proprio dove c’era lui. Qui cominciavano i problemi: man mano che si avvicinavano, il cane diventava sempre più nervoso, poi cominciava ad abbaiare e a ringhiare minaccioso. In breve, i poveri zampognari non potevano passare se non interveniva Tonino a calmare e a tenere fermo il cane.

Nerone e la quaglia

Qualche volta, dopo la scuola, era alle medie quindi doveva avere dodici, tredici anni, Tonino accompagnava il padre Ciccio nelle battute pomeridiane di caccia alla quaglia.

Non appena Ciccio si avvicinava all’armadio dove erano custodite la doppietta e le cartucce, Nerone dava fuori di testa saltando e correndo in giro come impazzito. Era il suo modo di dire ‘jamme … ja, diamoci una mossa’. Nerone era un cane da punta con istinto venatorio molto forte. Nella caccia lavorava in perfetta simbiosi con Ciccio. Ubbidiva immediatamente a tutti i comandi, anche se solo bisbigliati, come dietro, giù, vai, fermo, prendi, porta e lascia. Per la verità il ‘lascia’ non gli piaceva un granché … era sempre restio a lasciare la preda … gli piaceva tenerla nelle fauci il più a lungo possibile.

La zona prescelta per la battuta di caccia odierna è una striscia di terreno abbastanza scosceso sotto la strada statale verso Capo d’Orso. Il pendio, a partire da sotto la strada statale è ricoperto da una lussureggiante macchia mediterranea. Qualche isolato leccio e poi cespugli a non finire di lentisco, di ginestra, mirto, rosmarino … Il profumo delle ginestre in piena fioritura inonda l’aria. Il ripido pendio ricoperto dalla macchia mediterranea termina di colpo sull’abisso delle rocce alte una cinquantina di metri sul mare. In parole povere questa è una zona pericolosa e poco battuta da altri cacciatori.

Scavalcato il muretto della statale con un salto Nerone, Ciccio e Tonino sono fra i cespugli. Scendono lungo il pendio per una decina di metri con Nerone ancora trattenuto. Si fermano in un punto strategico e Ciccio ordina al cane ‘trova’. E’ uno spettacolo vederlo correre a zig zag fra i cespugli, saltare su e giù la scarpata. A un certo punto si blocca nei pressi di un basso cespuglio di rosmarino nella posizione classica della punta. Ha fiutato la quaglia … con il corpo teso come una corda di violino aspetta l’ordine di Ciccio per scattare in avanti. Tutto è pronto e il destino della quaglia è segnato. Ciccio imbraccia la doppietta e ordina ‘vai’. Con un salto Nerone è nel cespuglio … la quaglia si leva e sia allontana con volo rettilineo e uniforme. Troppo facile per Ciccio abbatterla al primo colpo.

La quaglia cade morta in un anfratto della roccia. Non sarebbe possibile recuperarla senza un cane con le caratteristiche di Nerone. Con pochi salti il cane è giù fra le rocce dell’anfratto e dopo poco riappare con la preda in bocca.  Nerone adesso non corre più, si avvicina lentamente … Ciccio deve sollecitarlo con ripetuti ‘porta’ per farsi consegnare la preda … ma oggi Nerone sembra più restio del solito a riportare la preda. E’ ancora a una decina di metri quando si ferma e … ingoia la quaglia. E’ un attimo, forse non ha ingoiato intenzionalmente la quaglia, ma subito si rende conto di aver fatto qualcosa d’irreparabile e imperdonabile.

Il peccato e il senso di colpa

A capo chino, con le orecchie basse e la coda fra le zampe, Nerone si avvia lentamente, senza mai voltarsi indietro, verso la strada statale in alto. A niente servono i ripetuti richiami di Tonino e di Ciccio, dove vai, vieni qua, … arrivato in cima salta sul muretto della statale e sparisce. Tonino guarda il padre perplesso. “E’ tornato a casa” dice Ciccio notando lo sguardo preoccupato di Tonino “lo troveremo la”.

Senza Nerone la battuta di caccia è comunque terminata. Mestamente Tonino e il padre risalgono la china o tornano a Erchie con il carniere vuoto seguendo la strada statale. Durante il tragitto Tonino continua a essere preoccupato per Nerone. In vista di casa comincia a correre lasciandosi il padre alle spalle. La madre è sulla soglia di casa. “Dov’è Nerone?” chiede con il fiato grosso. “E’ venuto con voi!” risponde la madre. “Ma non è già tornato?”. “No, qui non c’è”.

Tonino ha un tuffo al cuore … la sua apprensione è giustificata. Dov’è andato Nerone? Tonino corre giù in giro per il paese chiedendo a tutti se l’hanno visto, ma di Nerone non c’è traccia. Un pensiero, per quanto assurdo, gli passa per la mente: non si sarà mica suicidato per il dispiacere? Con il cuore in gola corre giù alla spiaggia, attraversa il basso tunnel naturale che collega la spiaggia di Erchie con quella di Caugo e cerca velocemente sotto il dirupo, sotto la chiesetta della Madonna. Nerone non c’è. Tonino tira un sospiro di sollievo e torna a casa di corsa con la certezza di ritrovarlo lì … ma Nerone non c’è.

Anche Ciccio è preoccupato anche se fa finta di niente. Lo rassicura: “vedrai, prima di sera torna a casa”.  Si fa buio, nella notte si sentono in lontananza i latrati dei cani dei pastori, si cena, Tonino va a letto … e Nerone non c’è. Non è facile prendere sonno. All’improvviso Tonino ha un intuizione, come un flash: “E’ stato rapito”. Poi l’intuizione diventa certezza: mentre tornava a casa seguendo la strada statale qualcuno deve averlo caricato in macchina e portato via chissà dove. Non può essere diversamente. Ora Tonino immagina Nerone legato in un tugurio e disperato per non essere a casa come ogni notte. Anche Ciccio, il giorno dopo, ammette che Nerone può essere stato rapito. Tonino va a scuola con la tristezza nel cuore ma con la speranza di trovarlo a casa al ritorno. Purtroppo al ritorno da scuola Nerone ancora non c’è. Anche il giorno dopo passa senza novità. Tonino è sempre più triste pensando a Nerone prigioniero da qualche parte.

Il perdono

E’ sabato e come ogni sabato mattina Ciccio e Tonino vanno alla ‘Turina’. Si tratta di un piccolo podere, con i classici terrazzamenti coltivati a limoni, che si trova in alto sopra Erchie. Per arrivarci bisogna arrampicarsi lungo un irto sentiero per una quindicina di minuti. Di lato ai terrazzamenti c’è un casolare dove Ciccio conserva gli attrezzi agricoli.

Mentre cammina dietro Ciccio, Tonino ha un presentimento: “Nerone è alla Turina”.

Supera di corsa il padre e raggiunge il casolare. Evviva … Nerone è lì accucciato vicino alla porta del casolare. Urla di gioia, lo abbraccia, lo accarezza ma Nerone non reagisce. Ha lo sguardo triste e le orecchie basse come quando li ha lasciati verso Capo d’Orso tre giorni prima. Sembra che stia male. Intanto Ciccio che ha sentito le urla di gioia di Tonino è arrivato e si precipita anch’egli ad abbracciare Nerone.

E solo adesso, come per miracolo, Nerone si rianima, si rialza, comincia a scodinzolare e poi a correre in giro abbaiando dalla felicità. Il perdono del padrone ha fatto il miracolo.

Più avanti negli anni, a Tonino capitava spesso di ripensare all’episodio di Nerone e della quaglia ingoiata. Rifletteva: il povero cane era rimasto per tre giorni senza mangiare e senza bere, accucciato all’aperto come ad espiare una pena. Dal comportamento tenuto, Nerone aveva dimostrato di riconoscere l’autorità, di aver coscienza del peccato e di aspirare al perdono. Ma un cane ha una ‘morale’, cioè un criterio per distinguere il bene dal male? Prova il senso di colpa e conosce il concetto di espiazione della pena? Ha coscienza di sé? Insomma un cane ha sentimenti, pensa, ama, odia, ha una volontà e persino ragiona? Ha anche un’anima?

Luigi Di Bianco