Ravello: Omicidio – La Cassazione non minimizza la partecipazione della Di Pino

22 dicembre 2018 | 11:06
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Ravello: Omicidio – La Cassazione non minimizza la partecipazione della Di Pino

Ieri mattina, dinnanzi alla prima sezione penale della Corte Suprema di Cassazione, si è tenuta l’udienza finale del processo contro V. Di Pino accusata, in concorso con G. Lima, dell’omicidio di P. Attruia, nel Marzo del 2015 a Ravello.

Gli ermellini hanno deciso l’annullamento della sentenza della Corte di Assise di appello di Salerno nella parte in cui è stata riconosciuta, alla Di Pino, la minima partecipazione al fatto. Trasmessi tutti gli atti alla Corte di Assise di Appello di Salerno, bisognerà attendere il deposito delle motivazioni, con ogni probabilità per l’inizio del mese gennaio.

Per i primi mesi del 2019 la fissazione dell’udienza in Corte di Assise di Appello di Salerno e la decisione sul punto.

Per questa udienza i legale della Di Pino, M. Giani si è affidato alla collaborazione scientifica del professor G. Dalia della cattedra di Procedura Penale dell’Università degli Studi di Salerno.

I temi sottoposti all’attenzione del Supremo Collegio si sono sostanzialmente concentrati sulla regolarità delle indagini che ad avviso della difesa ne avrebbero viziato i risultati. Particolare attenzione è stata posta alle conclusioni della consulenza tecnica del Pubblico Ministero affidata ai dottori Zotti, Mirabella e Pecoraro che già nella parte iniziale del processo furono sottoposti ad un durissimo attacco della difesa che rilevò gravi anomalie nella ricostruzione effettuata dai consulenti tecnici sulla base di una perizia affidata a cattedratici dell’Università di Tor Vergata. I periti, infatti, stabilirono che le ricostruzioni presuntivamente farmacologiche erano assolutamente inesatte al punto che la pubblica accusa fu letteralmente costretta a ridimensionare l’accusa.

Enza Di Pino, che inizialmente si era autoaccusata dell’omicidio, in primo grado condannata a 23 anni di reclusione (su una richiesta iniziale della Pubblica accusa sostenuta dalla dottoressa C. Giusti di condanna all’ergastolo) ridotta, in appello, a 9 anni di reclusione ed ammessa agli arresti domiciliari per la minima partecipazione al fatto. Il processo partì con l’accusa pesantissima di omicidio volontario premeditato con la Di Pino rea di aver somministrato alla vittima tranquillanti per poterla ucciderla senza difficoltà. Impianti accusatori ridimensionati nelle due fasi del giudizio dal lavoro instancabile del tema del legale dell’avvocato M. Giani, già assistito dall’avvocato Forlani.

A uccidere Patrizia non fu Enza. Da sola non avrebbe potuto eliminare la sua “antagonista”. A condannare da subito la povera donna, purtroppo, le sue stesse dichiarazioni rese la sera del 27 marzo quando si autoaccusò del delitto, per poi ritrattare, qualche settimana dopo, in un interrogatorio effettuato in carcere, nel quale riconobbe di essere stata costretta da Giuseppe Lima ad autoaccusarsi sotto minaccia. Altro che corpo ritrovato per caso dopo due giorni all’interno della cassapanca! Quel tempo fu necessario al Lima per esercitare terrorismo psicologico sulla povera Enza – tipica sindrome di Stoccolma – . Patrizia venne uccisa nella serata del 25 marzo al suo ritorno dal bar sotto casa. Aveva sorpreso il suo compagno, Peppe, a letto con Enza (i tre vivevano nella stessa abitazione da diversi mesi) e ne scaturì un momento di follia che portò a una violenta colluttazione e alla successiva morte della scafatese. Ma non per mano della Di Pino. Non fu lei a sferrare il colpo mortale alla sua antagonista in amore. Per il Lima, che inizialmente fu soltanto accusato di occultamento di cadavere rimanendo in libertà per quasi due anni, il concorso in omicidio prima e ora l’accusa, pesantissima, di aver assassinato la sua donna.

Condannato, lo scorso 21 maggio, a diciotto anni di reclusione, perché ritenuto responsabile – in concorso – dell’omicidio “volontario aggravato”.

La povera Enza, che ha già scontato tre anni di carcere, ha avuto l’unica colpa di aver ospitato in casa propria, all’inizio dell’inverno 2014, quella coppia di amici che viveva di stenti in una baracca poco distante. Definita una “spietata e cinica calcolatrice” (si leggeva nelle carte processuali), quando in realtà è ed è stata soltanto un’ingenua, figlia adottiva vissuta per gran parte della sua vita con la sola madre tra i cani e la terra, in un’abitazione fatiscente. Una donna che a cinquant’anni non possedeva una significativa cultura e non conosceva ancora il mondo (non sapeva cosa fosse un cubetto di ghiaccio sic!).