Savoldi,povero bomber – voleva vincere lo scudetto con il Napoli
257 Gol segnati da Giuseppe Savoldi in 520 partite con le squadre di club, tra Serie A, Serie B (con l’Atalanta), Coppa Italia e Coppa Uefa. Sono 168 in totale quelli realizzati nel massimo campionato
6 Trofei di Savoldi, compreso l’oro ai Giochi del Mediterraneo 1967. Con i club l’attaccante ha portato a casa 3 Coppe Italia (’70 e ’74 Bologna, ’76 Napoli) e 2 Coppe di Lega Italo-Inglese (’70 Bologna, ’76 Napoli)
77 Reti con il Napoli realizzate da Savoldi nelle quattro stagioni in azzurro, su 165 partite complessive (55 reti in A). Con il Bologna il totale è stato di 124 in 291 presenze, con l’Atalanta di 19 in 79 gare
70 Milioni di lire annui chiesti da Savoldi come ingaggio al momento di passare dal Bologna al Napoli. Uno stipendio abbastanza elevato per l’epoca, ma lontano dall’essere in linea con la valutazione del cartellino
Dal Bologna al Napoli per due miliardi: un colpo epocale Ma lui non si arricchì e la moglie, dicono, non la prese bene
Giuseppe Savoldi nasce a Gorlago, un paese in provincia di Bergamo, il 21 gennaio 1947
Beppe Savoldi voleva vincere lo scudetto: aveva lasciato il Bologna nel 1975, per andare al Napoli, in una squadra che era appena arrivata seconda e voleva per una volta superare la Juve. Era l’emblema di una grandezza ambita, la garanzia del gol che poi doveva diventare garanzia di vittorie. Invece non vinse quello che si aspettava; segnò, dimostrando di essere all’altezza del compito che gli era stato assegnato (77 gol in quattro stagioni) ma non capì mai se era arrivato troppo tardi (sarebbe servito l’anno prima) o troppo presto (gli anni dei successi, del primo scudetto, di Maradona, iniziarono nell’86).
Beppe Savoldi poteva diventare molto ricco: il Napoli, per prenderlo, tirò fuori 1,4 miliardi di lire e cedette al Bologna Rampanti e Clerici. Due miliardi in totale, cifra che non era mai stata spesa per un calciatore a quei tempi, al livello – per quanto sia complicata la proporzione – dei calciatori più forti del mondo di questi giorni. «Questo problema non mi tocca personalmente – disse con i baffi in primo piano poco dopo la cessione -, se mi venisse in tasca qualcosa di questa cifra allora potrei dir la mia». Però non c’erano ancora i procuratori e lui non usò alcun potere contrattuale: gli piaceva l’idea del Napoli, l’aveva chiamato un amico come Franco Janich, ds campano, e accettò, per rendersi conto solo molti anni dopo che avrebbe potuto approfittare meglio della sua fama (chiese circa 70 milioni, raccontano che la moglie disse: «Potevi chiedere di più»). Invece si arricchì il Bologna, che incassò la cifra sborsata da Ferlaino, e si arricchì pure il Napoli che, con i tifosi impazziti dall’idea di poter lottare davvero per lo scudetto, staccò 74.405 abbonamenti che alla cassa facevano 3 miliardi (300 milioni solo al primo giorno), più della somma spesa. Ma non si arricchì Savoldi, mister due miliardi.
Beppe Savoldi era un giocatore da Nazionale, garantiva sogni e gol negli anni in cui si galleggiava tra il ricordo della finale del ’70, la figuraccia del ’74 e si era ancora lontani dalla vittoria dell’82. Ci ha giocato solo quattro volte, troppo poco, quasi niente, e nemmeno con una spiegazione, se non quella che si è dato da solo: erano gli anni in cui i commissari tecnici sceglievano i “blocchi” di squadre intere, la Juve, il Torino, un modo per avere equilibri già pronti, per non dover mettere insieme artigianalmente la squadra, approfittando della coesione già acquisita.
Non doveva giocare nemmeno a calcio: si era innamorato della pallacanestro, faceva il playmaker, era bravo anche in atletica. Arrivò al pallone più tardi di molti, a sedici anni, all’Atalanta per l’insistenza di un tecnico ungherese. Era già pronto per diventare Beppe Savoldi, uno che poteva essere un sacco di cose, invece ne è state molte altre, tutte ugualmente belle: faceva gol e sembrava una cosa semplice, quasi sempre di sinistro, quando serviva anche di destro. Batteva i rigori cambiando passo in corsa, poco prima di tirare, usava l’inventiva perché non era un attaccante solo rigido e solo cinico, cercava di essere difficile da marcare. Migliorava sempre perché era cresciuto con il calcio visto come una gioia, perché non giocava mai pensando di diventare un campione, non era ossessionato dalla carriera. Faceva tutto questo solo perché gli piaceva, lo ha detto e dimostrato, giocando con il sorriso a Napoli, dove era facile sentirsi turbato per il costo del suo cartellino, per una spesa tanto alta in una città in cui i netturbini non ricevevano lo stipendio e i rifiuti giacevano per strada.
Savoldi, insomma, faceva parlare qualunque cosa facesse, volendolo o no. Doveva fare gol e lo faceva, a costo di essere Maradona prima di Maradona, di segnare di pugno prima che nascesse l’epica della Mano de Dios. Era il 1976 e per pareggiare la partita contro il Perugia si fece furbo, beffò il portiere, il gruppo di difensori avversari assiepati sul calcio d’angolo, non si fece notare da nessuno, alzò il pugno più in alto di tutti e disse di aver segnato di testa. Pentendosi poi, ma senza darlo troppo a vedere perché nemmeno Domenico Citeroni si era mai pentito.
Citeroni è colui che con Savoldi scrive un pezzo buffo del manuale della destrezza, a gennaio del 1975: faceva il raccattapalle nella partita del Napoli con l’Ascoli, Savoldi aveva già segnato due gol e correva in contropiede a destra, aveva battuto il portiere calciando sul palo lontano, ma Citeroni era proprio nel punto dove il pallone stava arrivando e rimandò furtivamente il pallone in campo. Disse, il ragazzo, che calciò per rabbia, ma la palla tornò indietro e nessuno si accorse che era entrata, sembrava fosse palo. Quel gol insomma non ci fu mai. Chinaglia, qualche giornata dopo, andò ad Ascoli con la Lazio e disse a Citeroni che fosse capitato a lui l’avrebbe strozzato, Savoldi invece una settimana dopo andò alla Domenica Sportiva per stringere la mano al giovane raccattapalle. Il gol con il pugno, anni dopo (a gennaio del 1977), fu una sorta di pareggio tutto personale.
Una quantità tale di spunti da letteratura che persino Pasolini ebbe qualcosa da dire nel 1971, sul Giorno: «Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. In questo momento lo è Savoldi. Il calcio che esprime più goal è il calcio più poetico». Aveva i baffi da artista, non ottenne tutto quello che voleva ottenere, ma si fece spazio, piacque, si divertì, superò il calcioscommesse, dichiarandosi innocente nonostante tutti. Si divertì anche se sembrava gli volessero imputare la povertà della Napoli di quegli anni per via dei due miliardi di Ferlaino. Per rispondere a questo bastò Enzo Biagi, che scrisse: «Siamo onesti: Napoli non va male perché hanno comperato Savoldi, ma perché non possono vendere i Gava». Al resto invece pensarono il sorriso, la gente in fila per gli abbonamenti, i carabinieri da chiamare se veniva avvistato in un negozio come i comuni mortali e non riusciva a liberarsi della folla, che lo toccava per constatare che fosse di pelle, muscoli e ossa come tutti, anche se era Savoldi. Al resto, soprattutto, pensarono i gol. Anche di pugno, anche annullati da un raccattapalle. In fondo sì, Savoldi aveva avuto tutto quello che gli bastava. Sarebbe solo potuto diventare più ricco, visto che lo chiamavano Mister Due Miliardi e non erano i suoi.
fonte:corrieredellosport