“L’eclissi della storia” – Dodicesimo episodio “La historia del monaco penitente”
Undicesimo episodio: Puntata precedente del 27 febbraio
Dodicesimo episodio: Il parroco proseguì: «Meravigliose sono anche le tele dell’Annunciazione e della Circoncisione, ma l’attenzione di Thomas fu rivolta alle cappelle della navata destra» tutti si voltarono verso quella navata, per capire quale era stata la scintilla, scattata come una molla nella testa del giornalista. Anche una guida della zona, esperta del territorio, stava ascoltando attentamente.
«Quelle sono le cappelle del cosiddetto “ciclo moderno”, non perché i culti rappresentati non siano antichi, ma per la modernità dei moduli artistici, sviluppati in un contesto storico che va dal Medioevo al 1700. Quello più vicino alla nostra concezione e alla nostra prospettiva artistica è il quadro della cappella dedicata a San Giorgio, patrono d’Inghilterra. Il Santo è raffigurato come un cavaliere crociato che trafigge un drago, simbolo del male, mentre destreggia un cavallo bardato con un drappo bianco con al centro una croce rossa. Il drago è una figura veramente raccapricciante, visto che sanguina vistosamente dal suo lungo collo. Che visione macabra!» Padre Robert si fermò, vedendo la guida fra il pubblico.
«Vogliate scusarmi, ma solo ora ho visto la dottoressa Smith, che viene sempre in Chiesa per delle guide. Dottoressa, se vuole aggiungere qualcosa sui quadri, ne sarei ben lieto».
La guida, carismatica com’era, non se lo fece ripetere due volte, facendosi avvicinare il microfono da Brian, che come uno stakanovista, era passato da una navata a un’altra: «Certamente, Padre. Su questo quadro di San Giorgio si può affermare che lo sfondo è particolare, come se fosse diviso in due; infatti dietro il drago c’è il deserto, un paesaggio completamente arido, mentre dietro la figura del santo, in secondo piano, c’è un contadino che lavora la sua terra, simbolo di fertilità, con un aratro trainato da due cavalli. Si rievoca principalmente la leggenda, sorta proprio al tempo delle Crociate, secondo cui San Giorgio salvò una fanciulla di un villaggio da lui difeso, da un drago».
Dopo un momento di riflessione, il parroco riprese: «La ringrazio dottoressa. Poi ricordo che Thomas voleva dei chiarimenti sulle altre due cappelle. La cappella che si trova al centro della navata è dedicata a San Girolamo, un altro Padre della Chiesa come Sant’Agostino. Non è raffigurato tradizionalmente come un cardinale, ma come un monaco penitente dalla tonaca bianca ormai logora e sudicia, con barba e capelli bianchi con incipiente calvizie. Lo sfondo è caravaggesco, perché è buio e solo una parte è illuminata dalla luce della candela, che ha il Santo nella mano sinistra». La guida annuì con la testa.
«La sua mano destra, invece, tende verso un teschio, posizionato sopra una montagna di libri, la cui base è rappresentata da un tavolo. Non domandatemi il significato preciso dell’atteggiamento del Santo. Posso solo dirvi che nella maggior parte dei casi, il teschio simboleggia la morte, a cui un martire può tendere per essere glorificato nei secoli dei secoli».
La guida giustificò le parole del parroco: «Infatti tutti noi festeggiamo il giorno della morte di qualsiasi Santo, non il giorno della sua nascita, perché la morte è, per la nostra religione, una nuova nascita verso la vita ultraterrena, la vera vita. E vi rammento che per quell’epoca la candela poteva rappresentare il lume della ragione, però sicuramente l’artista, questa volta, diversamente dal quadro di San Giorgio, voleva dirci qualcosa in più per quanto riguarda il simbolismo, e anche voi ve ne sarete accorti. Però bisogna sempre vedere se è lo stesso artista …». Il professor Radcliff era concorde e lo si poteva leggere dall’espressione del suo volto. Il docente, che aveva fatto in passato anche diversi studi sulla semiotica e sulla simbologia, era consapevole che dietro ogni quadro poteva nascondersi un rebus.
Il parroco giunse al termine della sua interessantissima disquisizione con l’opera d’arte più misteriosa: «L’artista o gli artisti sono stati, dal mio canto, molto ermetici, chiusi nel proprio io, anche per l’ultima cappella dedicata a Sant’Abele, singolare a causa dell’astrattezza. Qui il santo che veste una tunica bianca, simbolo di purezza, sta per essere colpito dalla spada di Caino, il suo crudele fratello, vestito da crociato con tanto di elmo».
«Padre, è stato già colpito!» corresse la guida.
«Ah, giusto, scusate la mia sbadataggine. Osservate bene, ci sono delle piccole macchie di sangue sulla sua tunica … Metaforicamente, Caino è il male che agisce all’interno della Chiesa, perché le Crociate sono state il delitto più grande che hanno compiuto i Cristiani nella storia. Dietro i due fratelli, i due protagonisti del quadro, ai piedi di un monte, c’è un deserto, dove di tanto in tanto spuntano degli arbusti secchi, che fa da sfondo al cruento epilogo della vicenda. Per astrattezza intendo proprio questo, un paesaggio brullo, che affonda le sue origini nella notte dei tempi. Un mondo irreale, nato dopo il peccato originale, che trova la sua massima espressione nell’assassinio fratricida. Tutto questo il Signore lo sa, il Dio onnisciente dell’Antico Testamento e fondamento delle tre religioni monoteiste vede e provvede, tramite l’occhio della Provvidenza, che si trova in alto a sinistra, il famoso oculum Dei». Il pubblico applaudì, dopo quella eccezionale interpretazione dei quadri, come non aveva mai fatto prima.
Era, dunque, arrivato il turno di Thomas, pronto a dichiarare il nesso fra la frase misteriosa e ciò che aveva visto in quella Chiesa. Padre Robert disse: «Thomas, adesso è il tuo momento. Pendiamo dalle tue labbra».
Il giornalista replicò: «Sempre lei, Padre, è stato al centro dei miei pensieri. Dopo che mi narrò la breve storia della Chiesa e dei quadri, al fine di redire, comunque, uno o più articoli, io le feci vedere le foto del terzo testo, raccontandone il contenuto, come ho fatto con tutti voi oggi, e le domandai se conoscesse un agiografo, un luminare che potesse aiutarmi nell’interpretazione filosofico – religiosa della frase misteriosa. Voi vi chiederete perché proprio un agiografo, ossia uno studioso della vita dei Santi? Il motivo era perché avevo individuato il punto focale della mia ricerca nel quadro di San Girolamo. Dovevo trovare un monaco penitente, proprio come il Santo raffigurato in quell’opera d’arte. La reale trascrizione di monachus peites era monachus penitens, il monaco penitente. Quindi la giusta traduzione era “Agostino come chi scrisse la storia del monaco penitente, Atti delle Cose Meravigliose”. E come potete capire, la storia cambia».
Per qualcuno del pubblico sembrava che la storia non avesse mutato il proprio status di mistero, nonostante quest’ultima traduzione, ma Thomas zittì loro anzitempo: «Mi serviva l’ausilio di un esperto di fiducia e lei, Padre, mi dette il contatto e – mail del dottor Antonio Mencutti, un archivista italiano suo amico, che poco più di un mese fa si trovava in Vaticano per degli studi. Un archivista di tal guisa capite bene che, su di una scala di valori, era al primo posto fra tutti gli studiosi che potevo rintracciare, ed era preferibile rispetto a un agiografo. Iniziai a comunicare con lo studioso, via posta elettronica, dopo che anche lei Padre lo contattò, infatti, mi raccomandò sulla mia persona e sul mio operato. E per questo la ringrazio Padre». Il parroco abbassò il capo in segno di ricambiata riconoscenza.
Thomas proseguì: «Inviai un messaggio piuttosto dettagliato al dottor Mencutti, che purtroppo non è potuto venire, ma che saluto calorosamente e so che ci sta vedendo da casa, e … come stavo dicendo, gli inviai una mail, allegando come file le foto di alcune pagine del testo e della scritta misteriosa, raccomandandogli di zoomarla il più possibile per una visualizzazione migliore. L’archivista confermò di aver ricevuto correttamente la mail, svelando il proprio giudizio e mi scrisse che quando lesse quella frase con le ipotetiche trascrizione e traduzione, pensò che io non sarei mai riuscito a rinvenire un bel nulla in tutta la mia vita, perché quella historia del monaco penitente doveva trovarsi in alcuni codici del Vaticano e poi l’autorizzazione per entrare nelle Biblioteche Vaticane è approvata solo per poche persone …» per alcuni presenti fu alquanto imbarazzante sentire quei discorsi, ma essi racchiudevano la realtà dei fatti, nel senso che per entrare in quei luoghi non era considerato abbastanza neanche il possedere raccomandazioni con esponenti della Santa Sede. Il messaggio pareva essere arrivato a tutti, perché nessuno osò proferir parola.
«Secondo lo studioso, di historiae di monaci, che volevano pentirsi dei loro atti illeciti, ce ne erano molte in quelle Biblioteche, ma nella scritta c’era un indizio, gli Acta Mirabilium. E così mi rispose favorevolmente, c’era qualche speranza di tracciare un solco in un terreno incolto. Per un discepolo di Padre Robert, mi disse, avrebbe fatto di tutto per aiutarlo e, poi, ne sono sicuro, quella frase doveva averlo colpito molto. Un paragone con Sant’Agostino, in fondo, non lo si legge tutti i giorni in un manoscritto. Dopodiché gli scrissi nuovamente, dicendogli che se la frase misteriosa avesse portato a una concreta scoperta filologica, avrei organizzato qualcosa per farla conoscere al mondo».
«E hai mantenuto la parola anche questa volta» ammise Padre Robert, memore della promessa mantenuta nei suoi confronti.
«Sì, è vero. Torniamo a noi … a scanso di equivoci, premetto che il dottor Mencutti ha avuto l’autorizzazione del Vaticano, affinché noi potessimo discutere con voi oggi, riguardo gli Acta. Ovviamente a suo tempo ottenne il permesso per poter scartabellare tutto il materiale disponibile. Conoscendo, tramite Padre Robert in primo luogo e successivamente per esperienza personale, la sua bravura, la sua caparbietà e la sua passione filologica, so che avrà setacciato quelle biblioteche da cima a fondo. Nonostante, però, tutto il suo duro lavoro di ricerca, non riuscì a identificare nessun testo o insieme di testi chiamato Acta Mirabilium oppure Mirabilia, né qualcosa di simile nei vari cataloghi, nei diversi fondi o nei variegati codici miniati, di cui parlava. L’unica cosa che riuscì a scovare fu un manoscritto anonimo in latino medievale risalente al XIV secolo, in un discreto stato di conservazione, con il titolo Acta Miserabilium. Historia Monachi Penitentis, che vuol dire “Atti dei Miserabili. La storia del monaco penitente”. Secondo l’archivista, poteva essere l’unica testimonianza esistente di questo tipo di atti al mondo, ma era il suo giudizio personale. Di sicuro, restava il fatto che la Historia del monaco penitente era l’unica historia pervenutaci degli Acta Miserabilium, almeno di quelle presenti al Vaticano». Il mistero s’infittiva sempre di più.
Thomas chiarì la situazione, leggendo dalla sua agenda e commentandola, come un conduttore di un telegiornale: «La Historia Monachi Penitentis mi fu riassunta in tal modo dal dottor Mencutti. E’ un testo particolare, nonostante la banalità del personaggio, ossia un monaco medievale, e la sua particolarità consiste nel fatto che è una confessione di un monaco a un altro monaco. Di solito a quell’epoca si raccontavano storie indicibili sui monaci, storie di tutti i colori, credenze medievali e segreti irrivelabili, ma non si scriveva mai una confessione, perché esisteva ed esiste ancora, come ben sapete, il segreto della confessione. Non si conoscono i due interlocutori della cronaca, ma uno dei due doveva apparire come Sant’Agostino. Infatti, volendo creare una similitudine, come Sant’Agostino aveva scritto le Confessioni, documentando il percorso della sua anima, così questo monaco aveva scritto un’opera tra virgolette dello stesso tipo, anche se le confessioni che riportava non erano quelle della sua anima, bensì di un’altra persona. Doveva essere un paragone in senso lato. L’autore rimaneva sempre lui, cambiava l’oggetto o il soggetto della sua trama. Questo era il senso, in sostanza tutto si basava sul Sacramento e sul titolo, esplicante l’opera stessa».
Questa era pura filosofia e la retorica, in questo caso, risultava determinante. Thomas tentava di destreggiarsi alla meglio, alla luce di una situazione alquanto complessa. Il registro era nuovamente cambiato, dal dialogo fra i due oratori al monologo. E tutti si aspettavano un colpo di scena da un momento all’altro.
«La narrazione comincia stranamente in medias res, probabilmente manca qualche pagina, perché solitamente nelle narrazioni medievali si riportano davvero tutti i dettagli: invocazioni a Dio, miti, leggende e storie, ma qui nulla, un bel nulla. Infatti, come detto, il lettore si cala immediatamente in quello che accadde proprio nel secolo in cui è datato il manoscritto, con la visita di un feudatario a un monastero ligure con tutti gli onori del rito. Il signore, di cui non viene menzionato il nome, propone un affare allettante all’Abate anch’esso anonimo. Sono a noi sconosciute le dimensioni dell’edificio ecclesiastico, mi scrisse così il dottor Mencutti, perché prima si parla di monastero e poi di Abbazia, per la presenza dell’Abate. Comunque, tralasciando questo aspetto, la narrazione si fa interessante. Il poeta di corte di questo ignoto feudatario ha scritto un’opera e siccome costui è morto, vuole che la stessa composizione venga copiata immediatamente dai migliori copiatori e miniatori in circolazione, affinché non venga dimenticata, ma anzi venga diffusa in tutto il mondo conosciuto. L’Abate pondera la proposta, valutando la quantità e la qualità dei manoscritti. E’ una grande cassa piena di pergamene con miniature abbastanza impegnative. L’Abate accetta e nel giro di circa sette mesi, i suoi monaci compiono il lavoro a loro assegnato. E’ stato un uffizio lungo e faticoso, come ammette l’autore della storia. Poi una notte, non si evince quale sia dal testo, molto probabilmente è la notte in cui i gendarmi del feudatario devono ritirare le copie e pagare l’Abate, tutto il lavoro dei monaci viene vanificato. Vengono, infatti, rubate due casse, sia quella in cui erano contenute le pergamene originali, sia quella conservante le copie monacali».
Thomas illustrò al meglio la vicenda: «Fino a questo punto del testo, il monaco, che desidera confessare i propri peccati, non sembra che abbia commesso nessun atto tanto grave al punto da essere un peccatore. Detto questo, ecco che il registro cambia ed anche da un punto di vista linguistico, perché si passa da una narrazione in terza persona a una narrazione in prima persona. Il “monaco penitente”, infatti, confessa ciò che ha visto. Quella notte il monaco non riesce a dormire. Dalla sua cella sente un rumore provenire dallo scriptorium, la grande sala dove i monaci copiano solitamente le loro opere, annessa alla biblioteca. Scende al piano inferiore del monastero e si vede comparire dinanzi quattro monaci vestiti con una tunica bianca. Crede che siano dei fantasmi ma poi si rende conto, avvicinandosi che sono dei ladri. Attraverso il portone del monastero che è aperto, scorge un carro su cui è stata già caricata una cassa. Sono intenti a trasportare la seconda. Un altro monaco del monastero come lui, scende velocemente al piano inferiore, ma viene scoperto. Allora i due monaci intervengono, essendo oramai scoperti, e cercano di salvare il salvabile. Quello che sta raccontando la sua confessione, dopo aver visto l’altro frate perdere i sensi, in seguito ad un pugno sferrato da un ladro, reagisce gridando e scaraventando il manigoldo a terra. Nel cadere, il “finto” monaco sbatte con la tempia destra sullo spigolo di uno scalino. Il monaco non intendeva ferirlo così gravemente, lo si può dedurre facilmente dal testo, mi dice il dottor Mencutti … e così tenta di soccorrerlo, ma invano, perché dopo un po’, come si evince sempre dal manoscritto, muore. Nel frattempo gli altri tre ladri fuggono con le due casse, nonostante l’intervento di altri monaci che cercano di mantenere fermo il carro. Nel testo non si dice che cosa sia capitato successivamente, forse qualche altro foglio del manoscritto è andato perduto, ma ritengo palese che sia stata una vera disgrazia la morte del ladro. Tra l’altro il frate ha agito per difendere se stesso e il monaco che era svenuto, affinché non fosse colpito nuovamente, e ovviamente per non far rubare le casse. Il racconto, dunque, che si presenta sottoforma di un manoscritto mutilo di diverse pagine, riprende con quello che accade successivamente. Alcuni monaci scelti dall’Abate si recano al porto, si presume che si tratti del porto di Genova, visto che siamo in Liguria, e costoro chiedono in giro se hanno avvistato tre monaci vestiti di bianco con due grandi casse. Un marinaio dice loro di aver visto caricare sulla galea Sanctus Andrea, diretta ad Amalfi, proprio due casse, ma non può giurare che siano quelle che i frati stanno cercando, perché non c’erano su quella imbarcazione persone vestite di bianco. Come ogni Abbazia che si rispetti, anche questa possiede alcune imbarcazioni e, quindi, si decide di partire per Amalfi. Giunti nell’antica Repubblica Marinara, si scopre che la galea non è mai attraccata a nessun molo del porto di Amalfi. Le casse e i ladri sembrano essersi volatilizzati, ma in realtà sono i monaci a essere arrivati troppo tardi».