“L’eclissi della storia” – Tredicesimo episodio “Il divino mistero”

12 marzo 2019 | 18:36
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“L’eclissi della storia” – Tredicesimo episodio “Il divino mistero”

Dodicesimo episodio: Puntata precedente del 6 marzo

Tredicesimo episodio: Una volta che il giornalista si rinfrescò con un sorso d’acqua, intervenne Padre Robert: «Detto questo, eccoci venuti al dunque, Thomas. Raccontaci che cosa ti inviò successivamente il dottor Mencutti».
«Mi inviò le sue conclusioni sul manoscritto e in allegato l’ultima pagina della Historia, una pagina davvero incomprensibile, ma veniamo per gradi. Ovviamente mi inviò un documento word, creato dal dottore stesso appositamente per me, altrimenti si sarebbe trattato di un reato, ossia quello di scannerizzare una pagina di un manoscritto del Vaticano all’insaputa dei membri di quelle biblioteche. Dopo aver letto e riletto il manoscritto, l’archivista e, sinceramente anche io, non avevamo capito il vero motivo per cui l’autore avesse riportato la confessione del confratello. Mi spiego meglio. Secondo il parere del dottore, condiviso dalle mie congetture, la morte del ladro non è stato il vero peccato, perché, come già detto, il monaco ha agito con buone intenzioni e poi il destino ha voluto che il malvivente cadesse in quella circostanza e morisse fatalmente. Il frate, probabilmente, aveva commesso il peccato di non aver avvertito subitamente l’Abate e gli altri monaci del furto, una volta sentito il rumore al piano inferiore. L’unione avrebbe fatto la forza … e se non fosse stato per la tragedia, pensai, il frate sarebbe stato accusato di complicità con i ladri, del furto».
«Quindi voi rifletteste in tal senso sulla tragicità del racconto e sulle motivazioni per cui il monaco si confessò a un altro monaco».
«Sì, Padre, ma entrambi ci sbagliavamo».
«Com’è possibile tutto questo?» si levò dal pubblico il professor Richardson che era intervenuto improvvisamente senza l’ausilio del microfono.
Thomas con tutta calma rispose: «La risposta alle nostre domande era contenuta nell’ultima pagina del testo, che conteneva parole che si susseguivano una dopo l’altra senza nessuna connessione fra loro».
Thomas si limitò a mostrare la fatidica “ultima pagina” del manoscritto, tramite il proiettore. Era, dunque, un foglio illeggibile non per la calligrafia, né per la scarsa consistenza del materiale scrittorio, in quanto pergamenaceo, bensì per il suo significato nascosto, detentore di un codice di lettura.
Il giornalista la commentò: «Il dilemma restava quello di decifrare un codice, alla stessa stregua della frase misteriosa del testo settecentesco su Sant’Agostino. Cosa non facile per chi non ha compiuto studi del genere. In realtà, quando ricevetti la mail dell’archivista e lessi la pagina misteriosa, stavo visitando nello stesso tempo un sito che parlava dell’occhio della Provvidenza, in vista di un futuro articolo sulla sua simbologia. In effetti, il quadro della cappella dedicata a Sant’Abele mi aveva colpito e non poco. Tornando alla pagina, le parole alcune in latino classico, altre in latino medievale, altre ancora in volgare, come potete notare, sono disconnesse tra loro».
Thomas, dunque, prese la bacchetta e le indicò progressivamente: «Vi leggo ad esempio le prime due righe “Nec letargo videret dimenticaria ossis Trinitate Balfomet fulgorem oblium sic sinceritas Imperator populisque lux volume turpitudine delictus lengua habemus Affrica crux desplicebat” … e così via. Un unico linguaggio in scrittura continua che andava da sinistra a destra, in latino scriptio continua, che non vuol dire un bel niente. Almeno così appariva inizialmente …».
Con quell’intercalare il giornalista fece capire di essere riuscito a decifrare il codice, quindi manifestò, a suo dire, la casualità della sua scoperta, avanzando con il powerpoint: «Il sito che trattava l’argomento dell’oculum Dei raffigurava, nella sua homepage, il disegno di una delle primissime versioni dell’occhio della Provvidenza che circolava nelle logge massoniche inglesi alla fine del XVIII secolo, con al di sotto dello stesso alcune scritte bustrofediche come compaiono sulle iscrizioni della Roma arcaica, ossia che andavano da sinistra a destra e viceversa. Un occhio normalissimo, come potete osservare, che non è inscritto nel “classico” triangolo molto caro ai simbolisti e agli studiosi di storia delle religioni, bensì è sormontato da una nuvoletta ed è accerchiato dai raggi del Sole, che rappresentano la gloria divina. L’occhio è molto simile all’occhio del dio egizio Horo, da cui appunto prendeva ispirazione, in cui sono disegnati solo i contorni semicircolari delle palpebre e al centro l’iride, il punto focale della visione. Io lo ammetto, sono un copione di natura. Sul mio PC ho scaricato molti file, soprattutto immagini storiche, e intendevo scaricare anche quell’occhio. Nello stesso tempo avevo aperto il file word della pagina che mi aveva inviato il dottor Mencutti. Anziché incollare l’immagine dell’occhio nella mia cartella delle Immagini, per errore la incollai come filigrana sul documento word aperto. Non ricordo neanche come abbia fatto, era notte fonda e i miei occhi si stavano chiudendo. La stanchezza aveva preso il sopravvento. Da quell’errore nacque questa nuova immagine non premeditata».
Thomas la mostrò con il proiettore. Le due palpebre semicircolari dell’oculum Dei evidenziavano alcune parole in volgare toscano poste, quindi, obliquamente sia al di sopra, sia al di sotto dell’iride. Non era tutto, l’iride stesso evidenziava altre parole al centro del testo. Apparivano agli occhi di tutti come dei termini messi in rilievo con un nero tenue, perché l’immagine dell’occhio era lo sfondo del documento del dottor Mencutti. A quanto pare era lo sfondo azzeccato.
Il giornalista affermò, guardando fra il pubblico: «Ovviamente ho modificato l’immagine per permettere una visualizzazione migliore, quindi senza la filigrana e tutte le ampollosità dell’oculum. Adesso mi servirebbe un volontario, cui vorrei far leggere le parole annerite» e poi volgendo la sua attenzione verso la navata destra «Magari qualche giovane studente, vieni tu, che prima mi hai posto la domanda».
Joseph Loruk si alzò, sotto lo sguardo vigile dell’anziano, che stava attendendo con ansia ciò che dall’inizio del convegno aveva presagito. Lo studente giunse sull’abside e lesse non senza difficoltà la prima “palpebra”: «Dunque … “nel suo profondo in un volume” … ehm … “che s’interna vidi con amore legato quasi … conflati?”».
«Sì, si conflati».
«Questa è la palpebra di sopra, adesso leggo prima l’iride o la palpebra di sotto?».
«Prima l’altra palpebra».
«… “che ciò ch’i’ dico … per tal modo insieme … è un semplice lume”?».
«Benissimo».
«E nell’iride c’è scritto … “ciò che lor costume si squaderna” … incidenti …».
«“Accidenti”».
«Ah, giusto. “Accidenti e sustanze e … per l’universo”. Mmm … che cos’è?» la domanda era lecita.
Si accese un entusiastico brusio fra il pubblico. Studenti e professori mormoravano, qualcuno scattava foto a quell’immagine, qualcun altro si avvicinava all’abside per poter giudicare al meglio l’esattezza della lettura del ragazzo, che risultava essere corretta. Senza ombra di dubbio, si doveva solo indovinare di che cosa si trattasse.
Joseph, a un certo punto, chiese: «Signor Reds, mi scusi, ma sono parole in volgare fiorentino?».
«Sì, sono in realtà alcuni versi di un’opera che tu conosci molto bene e che tutti voi dovreste conoscere molto bene» rispose il giornalista.
Il giovane aveva ammesso la sua familiarità con quei termini in vernacolo, ma in quel momento gli sfuggivano. Thomas a quel punto, volle ribadire quella familiarità, mostrando una scritta sul proiettore, facendo avanzare la presentazione: «Adesso, Joseph … così ti chiami giusto?».
«Si».
«Adesso, Joseph, ti è apparsa la composizione esatta di quelle parole, una composizione che mi è costato molto lavoro e … molto tempo. La puoi rileggere per favore?».
«La … la devo leggere io?» chiese stupito.
«Sì, leggila, sono certo che la riconoscerai».
«“Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna: sustanze e accidenti e lor costume quasi conflati insieme, per tal modo ciò ch’i’ dico è un semplice lume”».
Il giornalista disse eloquentemente: «Ancora non l’avete capito di che opera si tratta? Sono cinque versi, quelli che vanno dall’ottantacinquesimo al novantesimo del canto XXXIII del Paradiso. Signore e signori, siamo di fronte alla Divina Commedia di Dante Alighieri».
Il convegno si paralizzò. Per un attimo non si sentì volare una mosca. Silenzio tombale, tutti erano rimasti esterrefatti, il professor Radcliff quasi a bocca aperta. Il direttore e Padre Robert si scambiarono un occhiolino.
Dopodiché seguì un applauso scrosciante, concitato. L’applauso era duplicato, sia per la scaltrezza di Thomas nell’aver creduto sin dall’inizio della sua ricerca che le parole misteriose del testo su Sant’Agostino avrebbero portato a una scoperta importante, sia per la bellezza della scoperta stessa: si trattava del più grande capolavoro della letteratura mondiale. Dante, c’entrava con tutta quella vicenda. L’anziano della navata destra si sfregò le mani.
Thomas riprese il suo discorso: «Vi ringrazio per il vostro calore. Volevo tradurvi, o meglio parafrasarvi e commentarvi, questi versi in modo da comprenderli al meglio, dal momento che rappresentano il primo drammatico sforzo compiuto da Dante per raffigurare l’essenza divina. “Nella profondità dell’essenza divina vidi che tutto ciò che nell’universo è sparso e diviso, si trova legato con amore tutto insieme: sostanze e accidenti e la loro disposizione naturale quasi uniti insieme, per tale motivo ciò che qui riferisco è appena un barlume del vero”».
Proseguì, esprimendo la sua interpretazione esegetica di quei versi danteschi: «Volevo commentare questi versi danteschi, anche in riferimento alla Historia. In questo punto della sua narrazione, Dante si unisce a Dio, attraverso una visione panteistica della vita. Infatti, qual è la profondità dell’essenza divina? E’ tutto ciò che nell’universo si squaderna, sentite la meraviglia di queste parole, si squaderna … è come se anche noi stessimo guardando quella luce. Tutto ciò che è sparso e diviso nello spazio qui è raccolto e legato con amore, grazie allo Spirito Santo. Tutto insieme. Il sommo poeta, autore e protagonista della sua opera, qui si contrappone alla figura del mistico medievale. Mentre il mistico chiude gli occhi per annichilirsi, per rendersi nullo rispetto alla grandezza di Dio, Dante, invece, sfida le capacità umane e contrappone al nihil contemplativo una volontà e una forza intellettiva, che si risolve nella visione. Insomma Dante, come tutti noi, è un uomo e in quanto essere creato a immagine e somiglianza di Dio, il suo occhio è l’occhio di Dio. Poi per chi non avesse capito, Dante ripete. Egli vide quello che esiste fisicamente in natura: le sostanze, ossia le cose che sussistono per loro stesse; gli accidenti, cioè tutto ciò che sussiste solo in dipendenza della singola sostanza; e il rapporto naturale che intercorre tra di loro».
Padre Robert spezzò momentaneamente l’esegesi, volendo rendere fruibile a tutti il concetto filosofico, esplicato da Thomas: «Dunque, come hai appena detto, Dante si distacca dalla figura del religioso tout court, tipica di quel mondo clericale, e abbraccia la sua filosofia della visione, legandosi indiscutibilmente al panteismo dei filosofi di età umanistico – rinascimentale. Giusto?».
Thomas delucidò i presenti e il pubblico da casa: «Sì, per me Dante non è più un uomo del Medioevo, è il precursore di una nuova era. La sua visione sembra essere un argomento complesso, ma in realtà è molto semplice. Quando Dante vede la luce, comprende tutto, perché vede tutto, in ogni spazio e in ogni tempo».
«E gli altri due versi?».
«Per gli altri due versi, ricordiamoci sempre che Dante scrive in un contesto fra il vero e il fantastico, dando vita al verosimile o all’inverosimile e dando la facoltà di decidere al lettore. E dunque, nonostante la chiarezza dei versi della visione, il sommo poeta, alla fine, usa un mezzo per ribadire un concetto di Socrate: “So di non sapere”. E’ l’espediente dell’impotenza espressiva. Infatti, dal momento che non può spiegare il mistero della fede, afferma che quello che dice è solo un barlume del vero. In pratica non dimentica di essere uomo, non diviene superbo, intellettualmente parlando, e resta umile, non elevandosi al di sopra degli altri uomini. E’ questa la sua grandezza». Thomas ammirava fervidamente la figura leggendaria del sommo poeta.
«Detto questo, ritorniamo alla nostra questione. Quando decifrai l’ultima pagina, nacque in me un nuovo sentimento, che andava sotto il nome di avventura. Pensai che per quanto riguardava la confessione del monaco, fosse pressoché inutile comprendere il misterioso peccato del frate, o l’uccisione del ladro o il non aver segnalato prontamente la presenza di persone estranee in monastero in orario notturno, che aveva avuto come conseguenza il furto delle casse, perché in realtà era importante l’opera che era stata derubata. Mi ero incaponito che dovevo saperne di più su quegli unici indizi presenti nella Historia, che erano: i ladri vestiti da monaci con la tunica bianca; il nome di una nave sicuramente con finalità mercantili, la galea Sanctus Andrea; e la presunta destinazione della galea e delle pergamene, ossia Amalfi. Dal racconto e dall’ultima pagina, poi, si potrebbe desumere che i ladri avessero rubato sia le pergamene originali sia le copie della Divina Commedia. Ho usato il condizionale, perché la certezza non c’era ancora, in quanto l’autore del racconto poteva anche essere un estimatore di Dante e quindi voleva riportare i suoi versi preferiti, ma io ero convinto che il contenuto delle casse era proprio quell’opera magna. Sennò a che pro avrebbe dovuto scrivere in codice quei versi?».
Padre Robert si accorse che il professor Richardson alzò la mano, per porre un nuovo quesito: «Brian, allungati. Il professore vuole intervenire».
«Signor Reds, volevo in primis congratularmi con lei per la sua brillante esegesi e penso di farlo in nome di tutti».
«Grazie mille».
«In secondo luogo, volevo chiederle perché ha abbandonato gli studi su Sant’Agostino?».
«Non mi fraintenda professore. A inizio convegno, vi ho detto che sono stato come catapultato in questa vicenda, ma non si preoccupi … come sentirà a breve, anche Sant’Agostino entrerà a far parte della storia, così come Dante, i ladri, la galea, le casse e quant’altro. Avevo piuttosto messo da parte le ricerche precedenti, che poi avrei comunque ripreso, a favore di …».
«A favore della Divina Commedia? O meglio delle pergamene originali? Per queste pergamene era nato il suo sentimento di avventura?».
«Sì, professore».
«Questa è pura follia, come pensava di trovare quelle pergamene, se addirittura settecent’anni fa quei monaci non erano riusciti nell’impresa?». Anche buona parte del pubblico era d’accordo e sembrava che protestasse animatamente con il direttor Downing e con chi diceva il contrario, come il professor Radcliff, dando fiducia al giornalista. Ne nacque un parapiglia e Brian non sapeva a chi dare il microfono.
«Questa è tutta una perdita di tempo! Il giornalista non sa dove si trova! Non ha la Divina Commedia con sé!» sbottò un signore dalle retrovie.
A quel punto intervenne Padre Robert, che riportò l’ordine non tollerando tutto quel chiasso nella sua Chiesa: «Fratelli e sorelle, un po’ di pazienza, vi prego! Chiariamo un attimo la situazione, come giornalista Thomas voleva capire che cosa c’era dietro tutta quella storia, ed anche io avrei fatto lo stesso, pur non essendolo. Lui e il dottor Mencutti avevano trovato due fonti di due epoche diverse collegate fra loro, cosa non da poco. Poi man mano che gli eventi si sono susseguiti l’uno dietro l’altro, il nostro giornalista ha considerato possibile quella che poco fa il professor Richardson ha chiamato impresa. Se non ha con sé le pergamene, non vuol dire che esse non esistano e che lui non sappia dove si trovino. Lasciatelo continuare!». Il pubblico si ammutolì, nessuno osò proferir parola al cospetto della saggezza del parroco.