A Napoli la prima strage operaia: l’eccidio di Pietrarsa

17 marzo 2019 | 08:04
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A Napoli la prima strage operaia: l’eccidio di Pietrarsa

Nel nostro appuntamento odierno, Il Ventre di Napoli ci porta alla scoperta di uno tra i tanti eventi che hanno reso grande il nome della città: la costruzione della prima linea ferroviaria che fece da sfondo al primo sciopero dei lavoratori, la strage operaia dimenticata dalla cronaca storica e nota come “eccidio di Pietrarsa“.

Ci troviamo sul suolo al confine tra Napoli e Portici, denominato anticamente Leucopetra (cioè Pietra bianca), e che dopo l’eruzione del Vesuvio del 1631 assunse il nome di Pietrarsa. Proprio questo fu il luogo scelto dal grande e giovane sovrano del Regno delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone, per la costruzione della prima linea ferroviaria d’Italia, anticipando di 44 anni la fondazione della società milanese Breda e di 57 quella della società torinese Fiat. L’obiettivo di re Ferdinando era quello di incentivare l’economia e l’industria nel suo Regno per affrancarlo dalla sudditanza economica rispetto alla Francia e all’Inghilterra. Dopo il viaggio inaugurale, nel 1840 diede il via alla costruzione del Reale Opificio Borbonico, che risultò completato nel 1853, costituendo il primo vero nucleo industriale dell’Italia preunitaria. Grazie al lavoro di oltre seicento operai, l’Opificio riusciva a produrre locomotive a vapore in soli 150 giorni: un successo da record.

La morte del re nel 1859 e la nascita di altri opifici sul territorio furono le prime cause della diminuzione della produzione. Il volto brutale della storia si svelò a Pietrarsa solo dopo il 1861, quando con l’Unità d’Italia Napoli passò dall’essere una grande capitale a diventare una città come tante altre. Dopo esser passata nelle mani del Governo Italiano, l’ingegnere Grandis nel luglio del ’61 redasse un rapporto sullo stato dell’ Opificio: la sua immagine ne uscì evidentemente danneggiata, in quanto il documento denunciava le alte spese del luogo, la sua scarsa produttività, la presenza di edifici obsoleti, l’eccedenza di personale. La ditta Bozza, che per prima rilevò l’Opificio, scelse la via del profitto e lo fece speculando sulle spalle degli operai, aumentandone le ore di lavoro fino ad 11 e tagliandone gli stipendi.

Il malcontento operaio va inserito all’interno del contesto dell’unificazione, quando le masse si aspettavano un tenore di vita migliore e, in qualità di cittadini del Regno d’Italia e sostenitori del nuovo governo di Vittorio Emanuele, si sentivano anche in diritto di esprimere in piazza le proprie pretese. Tuttavia, anche il nuovo Governo doveva mettere in chiaro il nuovo assetto sociale, entrando inevitabilmente in conflitto con quelle classi che più animatamente intendevano autoaffermarsi. Uno scontro quindi tra le aspettative e l’inevitabile delusione delle stesse, tra le grandi promesse e la necessaria lentezza della maturazione della nuova macchina statale. A Napoli, soprattutto, la protesta non ha una natura pro-borbonica: si leva non tanto contro il capitalismo dello Stato, ma piuttosto contro i suoi rappresentanti, così distanti dalla diffusa immagine leggendaria dei suoi paladini, Garibaldi e Vittorio Emanuele.

La prima forma di protesta degli operai di Pietrarsa si verificò il 5 luglio del 1861: i lavoratori addetti alla ferrovia lamentavano il mancato pagamento del servizio prestato in qualità di Guardia Nazionale. Con il sopraggiungere di quest’ultima, la folla, che si era raccolta davanti agli uffici della direzione, si sciolse pacificamente con la promessa che il salario mancante gli verrà corrisposto. Ma tutto ciò che accadde nel giro di pochi giorni fu l’arresto di circa 80 operai con l’accusa di appartenere alla camorra.

Dopo il licenziamento di 60 operai (motivato dal fatto che per ottenere un aumento di salario essi dovessero di fatto aumentare la produzione), il malcontento raggiunse un punto di non ritorno nel pomeriggio del6 agosto del 1863: gli operai protestarono in quello che è stato il primo sciopero operaio d’Italia; si raccolsero sul piazzale antistante l’Opificio e rivendicarono un migliore trattamento. Di tutta risposta però, ed in modo assolutamente sproporzionato, il capo contabile dell’impresa, Zimmermann, invocò in un primo momento l’intervento di sei agenti. Nel secondo allarme, invece, dichiarò:

«Non bastano sei uomini, occorre un battaglione di truppa regolare» .

Immediato fu l’intervento armato dei bersaglieri, che spararono sulla folla, uccidendo 4 operai (Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Domenico Del Grosso, Aniello Olivieri) e ferendone 21. Al triste episodio, diffusosi con l’epiteto di “eccidio di Pietrarsa”, seguì il (vano) tentativo del delegato della direzione di giustificare la drammaticità dei fatti scaricandone la responsabilità sui lavoratori, appellandosi al loro desiderio di ammutinarsi, espresso numerose volte e alle frasi avverse nei confronti del nuovo Governo (“La dinastia dei Savoia muoja per ora e per sempre” , “Viva il governo de’ preti e duri sempre in Italia il governo papale”).

La stessa direzione, dopo essersi data la fuga, in un documento addossa la colpa alla presenza di “uomini senza morale e senza cuore” che si sarebbero mischiati tra gli operai:

“La dimostrazione tumultuosa e minacciosa di oggi, prova che lo stabilimento possiede troppi elementi di disordine, ed è impossibile non porvi pronto riparo. Lo stabilimento sarà riorganizzato nel più breve tempo possibile, ed in conseguenza gli Operai Onesti ed intelligenti potranno se lo vogliono, trovarvi lavoro”.

Pochi giorni dopo i fatti drammatici del 6 agosto, Bozza fu ferito in un tentato omicidio e ottenne la rescissione del contratto. Il 13 agosto, giorno della riapertura, gli operai erano calati a 499: 24 i morti o feriti, 240 assenti. Inizia così il vertiginoso declino dell’attività dell’Opificio: il suo primato nazionale, il fascino della manifattura delle locomotive a vapore italiane, il polo industriale del Regno di Napoli appaiono ormai lontanissimi. Dopo la sua chiusura nel 1975, Pietrarsa riapre nel 1989 in qualità di Museo Nazionale Ferroviario.

Gigantesche, le locomotive conservano intatta la loro magnificenza; sono immobili, eppure ci conducono ancora una volta in viaggio: un viaggio nel tempo, alla scoperta di un’epoca non poi così lontana in cui gli sguardi di tutta Italia, e non solo, erano puntati sul vertiginoso progresso da record di Napoli e della sua periferia, la cui grandezza fu il frutto del coraggio, dello spirito di sacrificio e delle speranze della nostra gente.

di Sonia Zeno Libero Pensiero