Terra, business e costi nel Salernitano: pagano i consumatori
Quando arriva al consumatore il prodotto costerà anche oltre il triplo del prezzo praticato dall’agricoltore o dall’allevatore rispetto a quello sborsato ai supermercati. E questo tutto a vantaggio delle strutture di commercializzazione che intervengono durante la filiera. In pratica a chi coltiva i campi o alleva il bestiame va pochissimo, ed i consumatori pagano alti prezzi al banco. È questa la situazione in cui versa il settore agroalimentare salernitano (e italiano in genere), nel quale molti agricoltori sono costretti a lavorare a ricarico zero o addirittura sottocosto; e in taluni casi a non raccogliere il prodotto o a pagare per prenderlo dalle piante e smaltirlo in discarica. La provincia di Salerno, dunque, non fa eccezione, tranne per la quarta gamma e per alcune produzioni di eccellenza, come il pomodoro San Marzano o il cipollotto nocerino. E tutto questo al netto delle crisi di settore come quella che ha colpito gli olivocultori che nel Salernitano hanno avuto lo scorso anno un raccolto del 70% in meno di quello del 2017 a causa delle gelate. In più c’è una tremenda concorrenza dei prodotti agricoli provenienti dalla Spagna o dall’Africa che vantano prezzi più bassi e una maggiore appetibilità alla vista, anche se il più delle volte sapore e qualità organolettiche inferiori. Il problema sussiste ancor di più per prodotti coltivati fuori dall’Europa perché in molti Stati si utilizzano fertilizzanti e anticrittogramici banditi da anni dall’Unione europea.
Il paradosso clementine. «Quest’anno c’è chi ci ha addirittura chiesto di essere pagato per raccogliere e dare loro le clementine da rivendere – dice Giuseppe Pacenza, imprenditore agricolo con campi di produzione in Calabria e rete distributiva a Salerno – In pratica ci hanno chiesto di vendere il prodotto a costo zero per evitare di pagare pure il costo di smaltimento. Purtroppo, la politica della grande distribuzione sta mettendo in ginocchio noi produttori, specie quelli piccoli che non riescono più ad andare avanti, mentre sui banchi i consumatori pagano prezzi alti o, spesso quando sono troppo bassi, vengono raggirati con merce fintamente italiana e invece importata dall’estero ». Pacenza ricorda anche il percorso che fanno, ad esempio,alcuni agrumi: «Raccogliamo in Calabria, vengono portati nelle piattaforme in Italia o all’estero e poi da qui ritornano fino ai supermercati, dopo aver percorso migliaia di chilometri. In pratica, il prezzo finale lo fanno più la logistica e i trasporti che la materia prima. E così dalle nostre parti c’è chi comincia a tagliare le piante. A differenza dei pastori sardi che versavano il latte a terra ma le pecore erano salve, qui distruggiamo il mezzo principale di produzione e quindi rischiamo di non avere futuro».
Kiwi gialli e pesche. I danni si ripercuotono a cascata non solo sugli imprenditori agricoli ma anche su chi vende sementi, diserbanti, concimi, macchinari per le industrie, lavoratori, tecnici e in generale tutto l’indotto. Per lo stesso ragionamento, in provincia di Salerno vengono spiantate le pesche nettarine e vengono impiantati altri prodotti come i kiwi gialli, perché non è possibile sostenere la concorrenza spagnola che li importa in Italia ad un prezzo inferiore a quello di produzione nel Belpaese.
La filiera dei prezzi. Ma vediamo quanto costa ad esempio la materia prima e quanto viene pagata dal consumatore finale. Ad esempio il latte: all’allevatore viene pagato da 38 a 50 centesimi al litro, al banco da 1.30 a 1.80. I pomodori al contadino vengono pagati da 9 a 80 centesimi di euro al kg, a seconda della tipologia, ai quali bisogna aggiungere 20 centesimi per la la- vorazione successiva ed il trasporto: ai mercati generali viene venduto da 0.50 a 1.80 e l’utente finale pagherà al fruttivendolo da 1.80 a 2.90. Lo stesso capita con le verdure che al coltivatore vengono pagate mediamente da 0.50 a 0.80 al kg per poi finire sui banchi del supermercato da 1.50 a 2.90 al kg. Discorso diverso per l’olio che per essere extravergine italiano, solo di olive costa da 3.50 a 4.50 a litro e non può essere pagato meno di un prezzo che varia tra i 7.50 e i 10 euro. Come si vede, sul prezzo finale dal 60 all’80% incidono i costi di commercializzazione, lavorazione, trasporto e confezionamento.
L’importanza del marchio. «È importante per il consumatore rivolgersi ai prodotti a marchio sottolinea Vito Busillo, presidente di Coldiretti Salerno – perché hanno un disciplinare che contempla tutte le fasi produttive e deve prestare attenzione all’etichetta legata alla tracciabilità e rintracciabilità che è garanzia di qualità e salubrità. L’unica soluzione per tenere insieme gli interessi del mondo agricolo e dei consumatori è puntare sulla filiera corta, ossia il prodotto che va direttamente dal produttore al consumatore, abbattendo una serie di passaggi intermedi che fanno aumentare a dismisura i prezzi. E il chilometro zero, contribuisce a costruire un mondo più ecosostenibile».
Salvatore De Napoli LA CITTA