“L’eclissi della storia” – Diciassettesimo episodio “La congiura”

9 aprile 2019 | 16:13
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“L’eclissi della storia” – Diciassettesimo episodio “La congiura”

Sedicesimo episodio: puntata precedente del 3 aprile

Diciassettesimo episodio: Thomas lesse, dunque, altri appunti, consultando e sfogliando la sua agenda, e affermò: «Dante è sicuramente stato un autore cortigiano, dopo il suo esilio da Firenze, al fine di essere ospitato e apprezzato presso le differenti corti dei suoi mecenati. Con Cangrande scattò subito una profonda amicizia, un legame così particolare al punto da essere ardua quella distinzione che si instaura tra uno scrittore e un suo mecenate. Gli autori settecenteschi, ed è questo che ci interessa maggiormente» commentò «congetturarono, nonostante lo spirito di fratellanza e la comunità d’intenti che li contraddistingueva, anche un Dante opportunista, dal momento che egli dedicò proprio a Cangrande la Divina Commedia. Un ulteriore esempio del suo opportunismo, volendo dar credito agli autori di quest’epoca, era la famosa Epistola a Cangrande, la lettera in cui Dante descrisse la sua guida alla lettura del poema, perché ogni verso della Divina Commedia è emblematico, ogni endecasillabo una verità da celare …».
«Questo vuol dire “per la casa”, giusto?» domandò subito Padre Robert.
«Sì, vuol dire proprio questo, per la corte scaligera».
Thomas terminò di leggere e dopo apportò alla questione una sua considerazione: «La dimora di Dante non fu più Firenze, la sua domus divenne la corte veronese del buon Cangrande e da quel momento la sua penna non fu più quella della Vita Nova, ma di una vita quasi metafisica e trascendentale.
Ricapitolando, l’anonimo si era schierato con chi affermava che Dante, per essere ospitato nella corte di Cangrande, gli avesse dedicato appositamente la Divina Commedia. Per la serie l’amicizia è una cosa e il lavoro ne è un’altra. Personalmente non posso dirvi se ciò sia vero o meno, ma potrebbe essere plausibile. Come potrebbe essere veritiero un altro episodio della vita di Dante, legato sempre al suo esilio, il viaggio verso una nuova nazione, un nuovo Stato. L’autore parla di un iter, di un viaggio, dopo essere stato esiliato e si presume all’incirca tra il 1300 e il 1302, ma la storia ci narra di un Dante ambasciatore fiorentino trattenuto dal Papa Bonifacio VIII, forse anche imprigionato nelle celle vaticane, affinché non ritornasse a Firenze, per intervenire contro il colpo di stato dell’Imperatore Carlo di Valois e per la sua successiva condanna in esilio con la collaborazione di questo frate Attila. Dopo la sua liberazione, di viaggio non se ne parla nei documenti antichi, se non di quello compiuto nel Centro Italia, per reclutare nuove leve insieme al capo del partito ghibellino Scarpetta Ordelaffi, per la battaglia di Lastra, terminata con una bruciante sconfitta. Detto questo, io ho presupposto un viaggio di Dante verso una corte precedente a quella scaligera, ma di questo non posso esserne sicuro in mancanza di prove certe. Quindi questo postea itinerem è di oscura interpretazione».
Nessuno osò ricusare le ipotesi del giornalista, in quanto appunto congetture, ma c’era un certo fermento nel pubblico. Il professor Radcliff era molto pensieroso, mentre l’anziano della navata destra si stiracchiò sulla sua sedia, sicuro delle sue convinzioni. Se costui era così tranquillo, ci doveva essere un motivo, perché appariva come un alieno in mezzo a tanti comuni mortali.
Il giornalista notò il suo strano atteggiamento e non lo comprese. Convinto tuttavia di poter portare a termine la sua impresa, continuò: «Torniamo a noi. Dodicesima pagina: Mortuo poeta, Cano copiam Badiae Liguriae miniatura adfidavit “Morto il poeta, Cangrande affidò la copia a una Badia della Liguria per la miniatura”. Queste parole, invece, sono di semplice interpretazione, molto chiare. Cangrande era il feudatario della Historia del Vaticano. Dante morì e, di conseguenza, Cangrande ne ritenne giusta e necessaria la divulgazione, vista anche la dedica del sommo poeta alla sua persona e alla sua casata. Il signore di Verona pensò bene, quindi, di far ricopiare la Divina Commedia a dei monaci di questa nota Abbazia ligure, esperti nella miniatura. Desiderava, infatti, che anche la parte estetica fosse curata nei minimi particolari. Anche l’occhio vuole la sua parte. Tredicesima pagina: Sed unus frater socius Attilae erat ignorantia Canis “Ma un frate era un socio di frate Attila per ignoranza di Cangrande”. Ignoranza qui non rappresenta un termine dispregiativo, ma Cangrande ignorava che all’interno di quel monastero ci fosse un monaco socius, che in latino ha più di un significato, come mi insegna bene il professor Richardson».
Il docente rispose: «Si, il termine socius può significare membro, socio, alleato, confederato, amico, compagno e così via, ma penso che in questo caso vada bene alleato».
«Sì, professore, lo credo anch’io. Quattordicesima pagina: Post copiam Marseille fortuna Abelii rapiverunt ut Actis “Dopo la copia con fortuna i Cavalieri di Abele di Marsiglia rubarono come negli Atti”. Con questa traduzione abbiamo la conferma che Marsiglia era la pista giusta da seguire sin dall’inizio, perché alcuni di questi Cavalieri dovevano essere asserragliati proprio nella città francese, come descritto appunto nella Historia. La fortuna sta, poi, nel fatto che nonostante i ladri fossero stati scoperti, riuscirono, comunque, a rubare la Divina Commedia, sia i manoscritti originali, sia le copie».
Un docente chiese il microfono e pose un ovvio quesito, dopo aver ascoltato le parole del suo giornalista e aver già visto con la coda dell’occhio le parole della quindicesima pagina: «Signor Reds, nel manoscritto non è riportata l’identità dei ladri?».
«No, non viene menzionata e quindi non si conosce la loro provenienza. Non sapremo mai se fossero Amalfitani o propriamente francesi. E le dirò di più, rimarrà per noi un segreto anche il loro abbigliamento. Sappiamo che indossavano una tunica completamente bianca. Probabilmente neanche l’autore settecentesco conosceva questi dettagli».
«In effetti, ai fini della storia, sono ormai dettagli ininfluenti» soggiunse Padre Robert.
«Fondamentalmente, è proprio così. Le parole della quindicesima e della sedicesima pagina possono costituire un unico periodo: Malus confessioni peccatorem condemnavit pro iuxto latrocinio Abeliorum. Oculum medium fuit adlegoria Deum Abelii vitam examinabat “Il cattivo condannò il peccatore alla confessione per il giusto ladrocinio dei Cavalieri di Abele. L’occhio fu il mezzo, l’allegoria secondo cui Dio esaminava la vita del Cavaliere di Abele”. Il periodare e il significato non sono chiarissimi, come potete constatare. Presumo che qui si voglia dire che l’alleato di frate Attila abbia condannato quel monaco, che uccise tra virgolette il ladro, alla sua confessione. L’autore afferma che l’atto del rubare dei Cavalieri di Abele sia stato giusto, ma non lo pensa veramente, perché, per giustificarlo, lo deve guardare con gli occhi degli stessi Cavalieri. Questo scrittore doveva avere un bel senso dell’umorismo. E’ stato comunque un atto lecito secondo loro, in quanto Dante era un acerrimo rivale. Tuttavia, la confessione del monaco doveva servire per far capire agli altri Cavalieri che tutto era andato per il verso giusto e lo strumento per poterla leggere era l’occhio di Dio. Inoltre come descritto nella sedicesima pagina, l’oculum era un’allegoria, secondo cui Dio controllava e giudicava le azioni degli adepti di questa nuova fazione, nata da una costola dei Gerosolimitani. Questa potrebbe essere l’origine della Massoneria».
Il giornalista stava incantando il pubblico con la sua amabile narrazione e con le sue profonde congetture. Intrise di significato e di una positiva tensione emotiva. Continuò imperterrito l’interpretazione delle punte della Croce di Malta: «Pagine diciassettesima e diciottesima anch’esse connesse fra loro: Cano historiam Texti Sancto Patri narravit cum textimone. Textimonus Ierosolimitanum recognoscit, Folchus Pontificia galera culpa Abeliana “Cangrande narrò la storia del Testo al Santo Padre con un testimone. Il testimone riconosce un Gerosolimitano, Folco in galera per colpa Abeliana”. Questa infausta vicenda della sparizione della Commedia, che come afferma l’autore è il Testo per eccellenza, giunge alle orecchie del Papa, tramite Cangrande. Il feudatario veronese gli riferisce di avere un testimone chiave, che ha riconosciuto un monaco gerosolimitano fra i ladri. La conseguenza è la prigionia del Gran Maestro nelle carceri vaticane. Il “per colpa Abeliana” finale farebbe presupporre una questione di una certa rilevanza, un inganno ordito contro l’Ordine Gerosolimitano. Folco viene incolpato ingiustamente da questo testimone, che non sappiamo chi sia, ma sicuramente era dalla parte dei Cavalieri di Abele, soprannominati anche Abeliani, come una setta eretica del Tardo Impero Romano, di cui si sa poco o nulla. Dico bene professor Richardson?».
Il professore sembrò prima guardare in aria, nel tentativo di scavare nei meandri della sua esperienza, poi rispose a suo modo: «Gli Abeliani o Abeliti non compaiono nei classici libri di storia, che siamo abituati a leggere, perché fu un’eresia dell’Africa settentrionale che durò poco, solo per un secolo, il IV, infatti ai tempi di Sant’Agostino, già non esisteva più. C’è qualche saggio che è stato scritto su di loro, quel che mi ricordo è che i membri di tale setta seppur sposati, erano sostenitori dell’assoluta continenza sessuale, perché ritenevano che Abele si era sposato, ma non aveva mai avuto rapporti con la moglie».
«Grazie, professore. Comunque, per non farvela lunga, gli Abeliani dell’epoca dantesca, in un sol colpo, derubarono Cangrande della Divina Commedia e fecero imprigionare il Gran Maestro. In pratica questi Cavalieri eseguirono una sorta di doppio inganno. Ciò farebbe presupporre anche che il testimone possa essere il “confessore” della Historia, l’indiziato numero uno … però è un’indagine ormai chiusa, che dura da troppi secoli e l’unica fonte che possediamo è un codice, quindi ogni informazione è da prendere con le pinze. E’ il primo principio della filologia. Tuttavia, solo al termine del convegno, scopriremo chi fu per davvero questa spia. Continuiamo ancora con la diciannovesima pagina: Mortuo Cane, Textum iniuxtum sine Abeliis et nemiciis “Morto Cangrande, Testo ingiusto senza Cavalieri di Abele e nemici”. Alla morte misteriosa di Cangrande, che sembra sia stato avvelenato dopo la guerra con Treviso, ed anche qui ho un sospetto che siano stati proprio questi Cavalieri, si diffonde una Divina Commedia travisata, in cui non vengono nominati molti personaggi scomodi a Dante. Quindi la Divina Commedia viene per quanto più possibile modificata».
Il parroco ricapitolò velocemente: «Era questo, quindi, lo scopo dell’Ordine: rubare l’opera del sommo poeta per poterla modificare e per poter tramandare ai posteri un “Testo ingiusto”, ossia edulcorato in maniera errata. Ed è la stessa e unica Divina Commedia che purtroppo conosciamo».
«Sì, è una Divina Commedia rettificata a loro piacimento. Ventesima pagina: Multas Actis scripserunt ut monitum utcapto Arce Iohannis “Scrissero molti Atti come monito, come il Forte di Giovanni preso”. Nei secoli sono continuati gli atti illeciti dei Cavalieri di Abele, tra cui la conquista del Fort Saint Jean, il forte marsigliese di cui si discuteva prima. Le loro malefatte furono narrate in quelli che dovevano essere molti acta, quindi come atti non furono scritti solo gli Acta Miserabilium e come storie o racconti non fu scritta solo la Historia Monachi Penitentis. Perché scriverli? Perché semplicemente servivano ut monitum, ossia da monito per chi voleva schierarsi contro di loro».
Padre Robert, fermamente, prese la parola per far dissetare il giornalista e per chiarire un altro aspetto molto importante: «Thomas, sicuramente il nostro pubblico avrà compreso che c’è un’altra questione che ancora non hai chiarito, ossia proprio il nome degli Atti, perché Atti dei Miserabili? Perché questi Cavalieri avrebbero dovuto denominare loro stessi in tal modo?».
Thomas rispose osservando gradualmente i componenti del suo uditorio, come se volesse attirare maggiormente l’attenzione su ciò che stava per dire: «Padre, purtroppo non conosceremo mai il nome originario di questi Atti, perché esso fu modificato sicuramente dal personaggio che stiamo per conoscere, ossia l’autore del manoscritto, oppure dal Vaticano. Da ora in poi non parleremo più di Medioevo e di secoli bui, ma il nostro punto focale sarà la tarda età moderna, che toccherà il suo apice con la Rivoluzione Francese. Noi non faremo propriamente riferimento a essa, bensì a un episodio risalente all’epoca della Rivoluzione. Leggete con me le prossime pagine e capirete. Ventunesima pagina: Ego filius nobilis, Abelianus fui, sed doctrina abalienavi “Io figlio di un nobile, fui Cavaliere di Abele, ma mi estraniai dalla dottrina”. L’autore finalmente si presenta. Era figlio di un nobile, quindi era presumibilmente un ricco signore dell’epoca. Divenne Cavaliere di quest’ordine, probabilmente molto noto fra le classi sociali più elevate, ma col tempo sentì di non condividere l’ideologia abeliana, estraniandosi dalla medesima. Ventiduesima pagina: Optata coniuriarce, Romae exerciti capites implicavi medio legato “Progettata una congiura all’interno del Forte, implicai i capi dell’esercito di Roma tramite un ambasciatore”. Anche queste sono parole che si commentano da sole. L’autore, di presumibili origini francesi, fu l’artefice di una congiura al Fort Saint Jean. Egli coinvolse, grazie ad un suo tramite, inviato a Roma, i capi dell’esercito pontificio. Una Rivoluzione dunque coeva alla Rivoluzione Francese».
Thomas con la coda dell’occhio vide dal pubblico una signora alzare il braccio destro per porre un quesito. A quel segnale il giornalista comprese il suo intento: «A breve vi spiegherò il problema della datazione, ossia che la Rivoluzione del Forte e la stesura del manoscritto siano contemporanee alla Rivoluzione Francese». La signora abbassò il braccio. L’anziano ridacchiò, divertito nel vedere quella scenetta.
«Ventitreesima pagina: Coniuria iuxta fuit, Papa ordinem Romet Marseille expulsit “La congiura fu giusta, il Papa espulse l’ordine a Roma e a Marsiglia”. Qui l’autore in qualche modo giustifica questa congiura. E’ consapevole che solo con un colpo di stato si poteva rovesciare l’ordine o meglio il disordine costituito. La conseguenza fu la condanna in esilio dei Cavalieri di Abele da Roma e Marsiglia, quindi dallo Stato Pontificio e dal Forte. Questo, comunque, non fa presagire il dissolvimento coevo e futuro dell’ordine. Le successive sedici punte sono collegate fra loro per formare nuovamente un unico periodo: Focum Pontificium supra Abelios textos, sed non historia penitentis, servatame, qui deprehensus inclususum galera Pontificia Abelianusut “Fuoco Pontificio sui testi Abeliani, ma non la storia del penitente, da me conservata, che scoperto fui imprigionato nella galera Pontificia come Cavaliere di Abele”. L’esercito pontificio dovette bruciare molti testi di questi Cavalieri di Abele o Abeliani. Si salvò solo la Historia Monachi Penitentis degli Acta Miserabilium, conservata dall’autore. Costui, però, fu scoperto e, essendo stato scambiato per Cavaliere di Abele, fu imprigionato nelle galere Pontificie. Questo è il motivo per cui oggi la historia è custodita nelle Biblioteche Vaticane. Se ve ne siete resi conto, qui, però, ci sono due enigmi. Insomma, come è possibile che l’autore fu imprigionato, se effettivamente fu uno degli artefici della congiura? E poi perché conservare quel testo e non la Divina Commedia? Al primo enigma non saprei rispondere se non con ipotesi un po’ campate in aria. Al secondo risponderanno per me le punte della ventiseiesima pagina».
Dopo aver fatto scorrere il suo powerpoint, Thomas si rese conto che il suo convegno stava quasi per terminare e meditò rivolgendo il suo sguardo verso l’anziano “… eh … mi stai ancora fissando. Se sei ancora qui, stai cercando ancora delle risposte … aspetta un altro po’ e starai certo che non deluderò le tue aspettative, così come non deluderò le aspettative di ognuno di voi che siete in questa Chiesa».