SIMONA SPARACO A SORRENTO DONNA MAMMA E SCRITTRICE NEL SILENZIO DELLE PAROLE
A due anni dal rogo della Grenfell Tower di Londra la sua storia quasi prede vita dalle sue ceneri. Perché si è ispirata a questa tragedia?
“Perché quel grattacielo, almeno nella mia mente, non si è mai incenerito. Ha continuato a bruciare per molto tempo. Le storie che conteneva al suo interno, quelle che Massimo (Gramellini, giornalista oltre che suo marito) ha descritto nel suo Caffè intitolato “madri e figli”, insieme alla storia di Gloria che telefona alla madre per congedarsi da lei, hanno continuato a riecheggiarmi in testa per mesi. Sapevo che i miei personaggi dovevano vivere quell’esperienza, e sapevo anche che il finale era già scritto, ma mi mancavano loro, i miei personaggi appunto, che probabilmente non assomigliano alle reali vittime di quella tragedia, ma che forse portano sulle spalle i loro stessi grandi dilemmi”.
L’ha colpita nel profondo o vi ha solo, legittimamente, visto un espediente narrativo?
“Mi ha colpita al punto che ho cominciato, ancora prima di sapere che ci avrei scritto un romanzo, a documentarmi sugli incendi nei palazzi. Mi è capitato anche di sognarle, quelle fiamme. Una volta da ragazza ho scordato dei sofficini su un fornello e la cucina ha preso fuoco. Mi ero distratta a guardare la televisione e me ne sono accorta solo perché dalla porta a un certo punto sono spuntati i bagliori delle fiamme. Ero sola in casa e avevo paura di fronteggiarle. Sono stata tentata di scappare e di chiamare i soccorsi, ma poi ho pensato che in un attimo la cucina avrebbe potuto anche esplodere e compromettere la vita degli altri condomini. Cosi mi sono fatta coraggio, armata di canovacci bagnati e alla fine le ho spente. Ma mi è rimasta addosso la paura. Da quel giorno le fiamme hanno un altro significato per me. Metaforicamente, e attraverso l’immaginazione, le ho ritrovate per scrivere questa storia”.
Conosce londra, ha mai visto la Grenfell Tower?
“Conosco molto bene Londra ma non ho mai visto la Grenfell Tower dal vivo. Volevo andarci quando ho deciso che ci avrei scritto un romanzo, ma poi mi sono resa conto che non volevo lasciarmi influenzare dalla realtà più di quanto non avesse già fatto la cronaca. E allora sono andata a Berlino (dove vado spesso da più di vent’anni) e ho cercato per giorni il palazzo che doveva ispirarmi. Avevo bisogno di un fiume, di un ponte e di uno spatkauf (tipiche drogherie berlinesi aperte sempre anche di notte, ndr)dalla parte opposta del palazzo. Quando l’ho visto (perché esiste ed è riconoscibile anche nella storia) mi sono detta: eccoci qua, ora non mi resta che aspettare i miei personaggi. Prima o poi arriveranno anche loro”.
La sua è una storia a più voci. Qual è il filo che le tiene assieme?
“Il legame ancestrale e indissolubile che unisce un figlio e chi lo ha messo al mondo. Edmondo De Amicis scriveva: “il primo e l’ultimo nome”, riferendosi al nome che per primo pronunciamo e all’ultimo dove la maggior parte di noi si rifugia un attimo prima di lasciare questo mondo. Il finale di Nessuno Sa di noi mi aveva lasciato esattamente lì, nella formulazione di quel concetto. Sentivo che dovevo riprenderlo e approfondirlo.
Di ogni personaggio ricostruisce accuratamente il profilo psicologico, per giungere al momento del fatto – il rogo – già conoscendo il loro passato, le incomprensioni con i familiari, i rimpianti”.
Dove nascono tutte queste storie?
“Mistero. Sono più di vent’anni che scrivo romanzi e sperimento quello che Susanna Tamaro definisce una “magia”. La domanda che ogni scrittore si fa quando termina un libro è: quella magia tornerà mai a trovarmi? Una cosa sui personaggi di questo ultimo romanzo però posso dirla con certezza: vengono da tanti mondi e culture diverse e sono anche il frutto delle mie esperienze all’estero. Volevo raccontare delle radici e del senso di estraniamento che si può sperimentare in un mondo che cambia velocemente i suoi connotati, perdendo tanto delle sue tradizioni, e ho attinto anche a tutto quello che di questo mondo ho avuto il privilegio di osservare da varie angolazioni”.
Tra le storie colpisce soprattutto quella di Polina, neo mamma in piena e crisi post partum, il suo rifiuto per il bambino che le ha rubato corpo, identità, e anche la vita. Oggi questo è un tema molto caldo, cosa pensa non sia ancora stato detto?
“Credo sia stato detto molto e che quel molto ancora si scontri con un’idea un po’ fasulla della maternità. La società ci vuole tutte mamme felici e ancorate alle proprie certezze, ma non è così. Le donne oggi sono più libere, e anche molto più sole. Possiamo studiare, lavorare e mettere alla prova i nostri sogni, ma la maternità resta una prova ancestrale che ci richiama ai nostri istinti, e non per tutte è una prova felice. Polina è stata anche un modo per guardare in faccia le mie paure ed esorcizzarle. L’ho amata come si ama qualcuno che non si nasconde pur di non nasconderti la verità”.
Da madre di due figli, ha mai provato una sensazione anche solo lontanamente simile?
“Certo. Momenti di difficoltà in cui, esasperata da un pianto che non riesco a comprendere, scoppio a piangere anche io e mi sento sopraffatta dal senso di responsabilità e inadeguatezza. Amare un figlio è anche una lente di ingrandimento sulle proprie forze e fragilità. Difficile e inevitabile tanto quanto naturale e imprescindibile”.
Del suo romanzo si può dire molto, ma più di tutti colpisce l’empatia che è capace di suscitare nel lettore. Serve “fare male”, colpire nel profondo, per smuovere qualcosa dentro chi legge?
“Io ho bisogno di farmi un po’ male quando scrivo. Giorni fa a Sottovoce Marzullo mi ha chiesto: ‘lei per chi scrive?’. La maggior parte degli altri scrittori ospiti con me nel programma ha risposto: per il pubblico. Io invece sono stata drastica e senza mezzi termini ho detto: per me stessa. Mi sarebbe piaciuto potermi allineare alle altre risposte, se non altro per fare bella figura, ma la verità è che quando scrivo io sono anche la prima e unica lettrice di me stessa, e non devo pensare a ciò che gli altri si aspettano da me. So quello che mi aspetto io da un buon libro: che mi stravolga, e che non mi lasci mai come mi ha trovata. Deve costringermi a guardare le cose in modo diverso e questo tipo di stravolgimenti di solito passa anche attraverso un po’ di sofferenza. Ma se è un buon libro allora sarà stata una sofferenza catartica“.
Il titolo rimane impresso, e incuriosisce. Ci racconti la sua genesi e il suo significato.
“Me l’ha suggerito un’amica. Il titolo iniziale era Scena madre. L’amica in questione, Michela, che è anche una delle poche persone che può leggere un mio libro prima che esca, mi ha fatto notare un passaggio del romanzo in cui mi riferivo al silenzio di certe parole che non riusciamo a dire. Le era piaciuto molto e secondo lei il titolo doveva suggerire proprio questo: l’altro grande filo che tiene insieme tutte le storie, ovvero le parole che non abbiamo detto alle persone che amiamo. È più facile a volte raccontarsi a uno sconosciuto su un treno che raccontare la verità a un genitore o a un figlio, alla persona che ci è più cara. Quel ‘silenzio’ del titolo si riferisce a questo”.
Il romanzo è anche storia di donne speciali, nonostante le loro mancanze e i loro difetti. C’è una qualche morale, in tutto questo? Un messaggio che ha voluto trasmettere attraverso le storie?
“Non credo ci sia una vera e propria morale. C’è sicuramente, al centro delle storie, l’importanza del dialogo, quale unico strumento per accorciare le distanze. Il mio palazzo è anche una Babele che brucia, i cui abitanti potrebbero anche parlare la stessa lingua ma non lo sanno”.
La più bella delle recensioni al libro è stata scritta da suo marito, Massimo Gramellini, su Facebook: Oggi esce Nel silenzio delle nostre parole il nuovo romanzo di Simona Sparaco, la donna che mi sopporta e supporta da qualche anno, nonché la madre di Tommaso Gramellini di mesi 3. La gestazione del libro e la gravidanza sono andate avanti di pari passo. Coincidenza non irrilevante, dal momento che il romanzo è incentrato su tre madri (e tre figli). (…) la curiosità di sapere chi si salverà viene ben presto sovrastata da un’altra che ci coinvolge tutti: riusciranno madri e figli a comunicare finalmente tra loro, a dirsi quello che non si sono mai detti, prima che sia troppo tardi?
Quella di rimanere vittima dell’incomunicabilità tra madri e figli, è una sua paura concreta? Teme che il suo dialogo con i figli si interrompa, a un certo punto?
“Ho messo al mondo due maschi, e già so che il dialogo tra i generi è una roba complicata. Vorrei evitare la miopia che coglie la maggiori parte dei genitori quando guarda il proprio figlio e si chiede: ma come ha fatto a uscire così? Siamo sicuri che è mio? Non sono mai davvero nostri, né necessariamente allineati ai nostri pensieri. Il difficile non è tanto crescerli, quanto imparare a lasciarli andare”.
Cosa farà, per evitarlo?
“Proverò a raccontarmi a loro come faccio quando scrivo, ma senza nascondermi dietro i miei personaggi. Proverò a capire le loro ragioni, cercando di ricordare sempre che il mondo in cui vivono è sì, molto diverso da quello che ho conosciuto io alla loro età, ma anche che essere umani significa saper riconoscere le strade che ci uniscono e accorciano le distanze”.