Marinai di montagna contadini di mare tra Valga e Remo del prof Liuccio.

6 luglio 2019 | 10:10
Share0
Marinai di montagna contadini di mare tra Valga e Remo del prof Liuccio.

Mi mancava da tempo l’escursione in Costiera via mare. L’ho fatta di recente, salpando da Salerno, destinazione Amalfi,in una mattinata luminosa di sole. Le emozioni hanno azionato le maree del sangue sull’onda dei ricordi sin da subito,quando dal vaporetto al largo il Castello di Arechi, massiccio nella gloria della luce, mi ritmava la potenza dei Longobardi e, con il sottofondo della scia d’argento dell’acqua sventrata, dentro m’affabulava calda la voce di Alfonso Gatto ad eternare ” lo stellato” di una notte d’estate.Il tempo di un flash di memoria d’affetto e già Monte Finestra spalancava cielo su Albori e Raito, fotogrammi di case e chiese nel vero del costrutto ardito, macchie di bianco accecante nel verde dei vigneti e dei limoneti, là dove Benedetto Croce trovò serenità di riflessione nella villa rustica sulle propaggini dei Lattari e l’Italia umiliata e ferita dalla Seconda Guerra Mondiale trovò l’orgoglio per ricominciare con un Governo unitario e Salerno ebbe gli onori di Capitale. Oggi Villa Guariglia  espone creatività colorata di ceramica d’autore.Il tempo di sorridere ad una prosperosa giovane signora sudamericana che miagola orgasmi da visibilio di piacere incantata a spettacolo di verde di campagna che dirupa sull’onda e di verde di mare che scala falesie ambrate di nuda roccia e già Cetara s’imbuta a cercare origini alla sorgente del Cetus alle radici del Falerzio. La Cupola maiolicata della Parrocchiale di San Pietro rifrange luce sulla Torre, che, alla carezza/nenia  dell’onda calma, ritma litaniante domini di dogi d’Amalfi e abati de La Cava.

Bella nella sua pigrizia di mare, Erchie espone miracolo di borgo dipinto nel vero di una insenatura, ferita di penetrazione d’amore di mare a fecondare terra. E’, invece, solo ferita di violenza dell’uomo a sfregio di bellezza in nome del progresso della civiltà industriale la cava che fu progetto di un agrumeto riparatore mai realizzato. Allontano con fastidio le riflessioni sulle tante occasioni sprecate del territorio e già mi ferisce di grazia e di stupore il salto ardito e accidentato di Capodorso, dove di notte un fascio intermittente di luce del faro mette in guardia i marinai incauti. Più su il Falerzio espone  altari di pietra con grotte/tabernacoli ad alta quota, dove roteano e si posano falchi pellegrini e corvi imperiali in sosta d’agguato a caccia di preda. Il vaporetto segue la rotta al largo e mi consente di soddisfare, irrequieto, la curiosità da prua a poppa  tra le sirene ammarate a LI Galli e quelle che ancora cantano il dramma di amore e morte di Licosa, suicida per la vergogna della beffa di Ulisse,che, bello, crocifisso all’albero maestro, nudo, squame/sale/desiderio, umiliò la dea e passò oltre. In lontananza  già sfuma Maiori, che accolse Madonna pellegrina in una tempesta/naufragio e le dedicò santuario/nave di luce pronta al varo ardito, e Minori, scheggia di storia antica di borghesi danarosi e crapuloni in lussuose villa di mare.Lassù Ravello minaccia capitomboli a devastazioni di coltivi digradanti, ma la minaccia sfuma  sull’onda dolce di un flauto magico,che tintinna sui tralci dei vigneti, caracolla giù per i terrazzamenti degli agrumeti e si frantuma sul letto ghiaioso dei fiumi/torrenti. Il Campanile della Maddalena di Atrani è sentinella di luce al ricamo di  chiese e case di Atrani su cui veglia Masaniello,che canta ancora l’inno di libertà dalla sua casa bianca fiorita per incanto su di uno sperone di roccia.La svolta del Luna apre lo scenario unico ed irripetibile della mia città del cuore. Amalfi mi accoglie come sempre con lo spettacolo di grazia e di bellezza esposto con la disinvoltura da grande regina.Le maree del sangue tambureggiano con fragore e i ricordi di anni lontani di giovinezza e di creatività mi popolano cuore, anima, pensieri mi danza negli occhi lo scenario del grappolo di case di Vagliendola, la cupola maiolicata della Cattedrale, l’albergo Cappuccini/convento con il sorriso di califfo di Quasimodo, il Palazzo San Benedetto mia palestra di esercizio di democrazia, il pino di Capodicroce e Sant’Antonio e il Monastero di San Lorenzo/Cimitero, dalle cui celle mi spiano e salutano sorridenti molti che mi furono amici leali.Lo sguardo   si appanna e non so se è  la luce accecante del sole di mezzogiorno o qualche lacrima di commozione che si fonde e confonde con gocce di sudore di una giornata torrida. Sono approdato alla mia Itaca.  Mi verrebbe voglia di piantarvi definitivamente il remo, con lo stesso gesto di Ulisse dopo aver riabbracciato il vecchio padre Laerte nella vigna.

E’ stato il pensiero ricorrente nei 30′ della traversata, che mi fa fatto riflettere sulla verticalità della costa, dove gli uomini sono da sempre marinai di montagna e contadini di mare e da sempre si dividono tra vanga e remo. E questa vita anfibia tra miti ancestrali di terra e d’acqua mare, interiorizzati e metabolizzati e quasi  sacrali li esalta il mito/mistero/mostro della volpe pescatrice o pistrice ricamato  negli artistici arabeschi del pavimento dei resti della villa romana di Positano. Forse anche per questo qui anche la cucina sa di terra e di mare, di vanga e remo, di salinità e ventosità creativa. Ne avrò la ulteriore riprova in quel santuario della cucina creativa innervata nella tradizione che è la Caravella, dove di sicurò gusterò, tra l’altro, il soufflè di limone, ribattezzato “il sole nel piatto” da Salvatore Quasimodo, con una straordinaria immagine poetica da par suo.Sarà per me un ritorno a casa ed un bagno di emozioni nei ricordi di una bella tranche di vita, accolto dal sorriso contagioso di Antonio Dipino