Brexit: il governo ottiene la sospensione del Parlamento e la regina acconsente
A precipizio verso la Brexit, deal o no deal, senza l’impaccio del Parlamento. Boris Johnson innesca la bomba del conflitto costituzionale in Gran Bretagna, strappando alla regina il via libera alla sospensione dei lavori di Westminster per 5 settimane, a partire dal 9 settembre, in modo da ridurre ai minimi termini gli spazi residui a disposizione dei deputati ostili a un divorzio hard per frenare la corsa del governo di Sua Maestà verso un’uscita dall’Ue costi quel costi alla scadenza tassativa della proroga del 31 ottobre. La mossa del premier Tory, evocata a più riprese negli ultimi tempi, è deflagrata oggi a Camere chiuse per la pausa estiva, ma ha scatenato comunque un putiferio politico e di piazza. Non senza riaccendere le paure del business certificate dal nuovo scivolone della sterlina. Sulla carta si tratta di un’iniziativa ordinaria dell’esecutivo. Iniziativa che la 93enne Elisabetta II, ligia da sempre alla forme e ai limiti d’una monarchia costituzionale, non ha potuto far altro che approvare di prassi sulla base del “suggerimento” (advice) ricevuto per telefono dal primo ministro. E su cui ha apposto infine la sua scontata firma nel castello scozzese di Balmoral, malgrado gli appelli e le richieste d’incontri urgenti ricevute dal capo dell’opposizione laburista, Jeremy Corbyn, e da quella liberaldemocratica, Jo Swinson; o ancora la petizione popolare di protesta capace in poche ore di raccogliere oltre un milione di firme sul web.
La leader del Partito Conservatore in Scozia, Ruth Davidson, si è dimessa. Nel messaggio Davidson, convinta ‘remainer’, menziona “il conflitto che ho vissuto sulla Brexit”.
La polemica si è fatta d’altronde subito rovente. Lo speaker della Camera dei Comuni John Bercow, battitore libero conservatore inviso ai brexiteer del suo partito d’origine, ha denunciato in un proclama senza precedenti la strategia di Downing Street come “un oltraggio costituzionale”. Corbyn ha parlato a sua volta di una “minaccia alla democrazia”. E la first minister di Edimburgo, Nicola Sturgeon, leader di un’altra forza d’opposizione, gli indipendentisti scozzesi dell’Snp, ha bollato BoJo come un aspirante “dittatore in miniatura”. Del resto, se Donald Trump ha preso risolutamente le parti del “grande” Boris via Twitter (e l’Ue ha preferito ufficialmente tacere), un commentatore e attivista britannico di sinistra, Owen Jones, è arrivato a far balenare addirittura lo spettro del “colpo di stato”, lanciando un manifesto online in favore di proteste di piazza che già vedono la luce.
E alcuni deputati, fra cui il ministro ombra laburista Clive Lewis, hanno invocato l’occupazione degli scranni di Westminster come atto di resistenza al “sopruso”: quasi a riecheggiare scenari degni della rivolta parlamentare inglese dell’epoca della dinastia degli Stuart e di Cromwell. In una lettera ai deputati, Johnson ha cercato viceversa di giustificare la sua scelta – che figure pubbliche anti Brexit quali l’ex premier John Major o l’imprenditrice Gina Miller intendono sfidare in tribunale – come legittima, prima del cosiddetto Queen’s Speech, il discorso con cui tradizionalmente la sovrana apre il nuovo anno parlamentare leggendo il programma del governo in carica per i mesi successivi. Un appuntamento spostato al 14 ottobre, con 5 settimane di buco necessarie nelle parole del successore di Theresa May a preparare i progetti legislativi “esaltanti” che il gabinetto si propone di varare in vista della Brexit su sanità, lotta al crimine o istruzione. Il premier ha inoltre respinto come “totalmente falsa” l’accusa di Bercow e di altri di voler silenziare le Camere, sostenendo che queste avranno modo di tornare a dire la loro sul distacco da Bruxelles dopo il Consiglio Europeo del 17-18 ottobre. E ha ribadito di mirare semmai a un nuovo accordo con l’Ue, pur insistendo sulla condizione (finora categoricamente respinta dai 27) di far sparire il backstop sul confine aperto irlandese. In realtà, però, la tempistica e la durata della chiusura del Parlamento (‘prorogation’, nell’ordinamento d’oltremanica) rappresentano un macigno che, salvo revoche, lascerà ai deputati – divisi su quasi tutto, ma in maggioranza contrari al no deal – poche carte da giocare e pochissimi giorni: una settimana di sedute dal 3 al 10 settembre; due fra il 14 e il 31 ottobre. Tempo durante il quale gli oppositori – con la sponda di una pattuglia crescente di Tory moderati – dovranno provare ad alzare le barricate con due sole strategie possibili. O quella d’una legge pro-rinvio (dall’incerto potere vincolante) che tenti di vietare al governo un traumatico taglio netto dall’Ue; o quella di una mozione di sfiducia, che Corbyn promette “al momento opportuno”, ma a cui Johnson pare già pronto a reagire con la scommessa di elezioni anticipate immediate: da cavalcare, nel caso, secondo lo schema ‘popolo contro palazzo’.