Polemico, sperimentale, eclettico. Non c’è una forma di scrittura che in oltre mezzo secolo di lavoro letterario Peter Handke non abbia toccato. Ha scritto teatro, poesia, romanzi, reportage, sceneggiature cinematografiche – e l’ha fatto dedicandosi alle parole con l’intemperanza dell’autodidatta geniale e provocatorio. Quello che può permettersi di insultare il pubblico e gli scrittori delle generazioni precedenti. Lo “strappo” è una sua mossa tipica, da quando debutta intorno alla metà degli anni Sessanta, a un’epoca più recente, quando prese posizioni assai discusse sulla guerra jugoslava, difendendo la parte serba e accusando l’Europa inerte. Uno che cinquant’anni fa incendiava la scena con un titolo come Insulti al pubblico non promette docilità. E nel romanzo d’esordio, I calabroni (1966), da poco ristampato da Guanda, il suo editore italiano, il ventiquattrenne Handke agita le sue visioni nel paesaggio della Carinzia meridionale in cui è cresciuto. I sensi sono all’erta: il fiume, gli insetti, l’estate. La stranezza e l’intensità dell’essere vivi. Procede per “visioni”, e questo è tipico suo: essere assorti nell’istante, sprofondare in esso dilatandone la durata. E quel Canto alla durata – in versi, vent’anni dopo l’esordio – parla di un tempo minimo e sconfinato: “La durata era una sensazione / la più fugace di tutte le sensazioni […]. / Eppure con il suo aiuto / avrei potuto affrontare sorridendo ogni avversario”. Di sensazioni si nutrono i suoi numerosi libri meditativi: una sequenza fitta di variazioni sul tema dell’avventurarsi in ogni singola giornata, dell’avvertire “il peso del mondo”.

Scrivere, cercare funghi, scegliere una canzone da un vecchio juke-box, disegnare, isolarsi in un posto tranquillo: i gesti sono minimi, la posta in gioco è la vita stessa. I giorni e le opere, come dice il titolo di una tipica raccolta di “fogli sparsi” alla Handke. La matita dello scrittore austriaco annota di continuo, perché annotare e vivere sono due cose diverse e sono la stessa cosa. Libro dopo libro – nella nobile tradizione europea dello scrittore-intellettuale – si compone la storia del pensare, dell’avere pensato: di “tensione continua” parla lo stesso Handke, di inesausto movimento che “si ramifica lentamente”. La tentazione aforistica è sfiorata costantemente; quella narcisistica è consapevole, perché, sostiene, “la lunga e attenta contemplazione della propria immagine allo specchio” consente di osservare e comprendere gli altri. In quel piccolo capolavoro che è Infelicità senza desideri (1972) – il memoir sul suicidio della madre – dà un’anticipata lezione di letteratura agli araldi dell’autofiction di là da venire. C’è una misura, nel racconto, un sussurro che diventa straziante perché mai ricattatorio: Handke recupera il trafiletto di cronaca che archivia frettolosamente la vicenda di una casalinga cinquantenne che si toglie la vita con una dose eccessiva di sonnifero. Lo scrittore, forzando la propria stessa apatia, si trasforma in “una macchina che ricorda e che formula”. Lo fa per sfidare l’inesprimibile, e per mettere alla prova disperatamente il potere del linguaggio; e tuttavia – confessa – “mia madre non può diventare per me quello che io divento per me stesso, una figura artistica alata e vibrante, sempre più serena. Lei non si lascia incapsulare, resta inafferrabile, le frasi precipitano in qualcosa di buio e giacciono confuse sulla carta”.

Perturbamento, si potrebbe dire richiamando un altro maestro austriaco. C’è sempre un’increspatura, uno squilibrio nelle esistenze che Handke setaccia: solitudini estreme in romanzi come La donna mancina (di cui lui stesso girò un adattamento cinematografico) o Prima del calcio di rigore, portato sullo schermo da Wim Wenders, con cui Handke ha collaborato a più riprese (suoi sono alcuni dialoghi di Il cielo sopra Berlino).
Ostinandosi a scrivere a matita da oltre mezzo secolo, Handke cerca la strada della salvezza che “viene sempre dalla sciagura”, dal fallimento. Da “profugo del suo tempo” tenta un bilanciamento fra mitezza e furore; al riparo dal mondo, nel suo ampio giardino-bosco a una dozzina di chilometri da Parigi, continua a scrivere del mondo.