Sorrento . Guido D’Agostino: il filo rosso delle rivoluzioni

19 novembre 2019 | 09:46
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Sorrento . Guido D’Agostino: il filo rosso delle rivoluzioni

Sorrento . La lunga storia del Mezzogiorno il prof. Guido D’Agostino l’ha studiata avendone una visione storiografia che privilegia l’impostazione rivoluzionaria. Cioè esiste una ricostruzione legata dal filo rosso delle manifestazioni dettate dalla voglia di contare, di non subire passivamente, del dire un no fermo a quello che non è sopportabile. Facciamo degli esempi che vengono da lontano, nel 1507 la monarchia intende impiantare nel Regno l’Inquisizione “alla maniera di Spagna”, ma il popolo insorge e il re è costretto a ritirare il proclama. Nel 1547 don Pedro de Toledo, detto “il viceré di ferro” (il re era Carlo V), decide di chiudere le Accademie ma il popolo e i nobili si ribellano e proprio questo fa in modo che l’iniziativa fallisca. Nel 1585 l’assessore all’Annona (vettovaglie) aumenta il prezzo del pane senza immaginare minimamente le conseguenze di tale folle proposta. Il popolo insorge, lo cattura, lo denudano, lo percuotono a morte e lo smembrano in una sorta di delirio cannibalesco. È facile immaginare la scena se accompagnata dai fumetti: «Ah, ce vuliv’ affamà, t’amma scippà ‘o core ‘a pietto», oppure: «Nce vulive ‘ntussucà ca nova tassa, ’o fecat’ t’amma magnà». Ed ecco che si arriva al luglio del 1607. La Spagna è impegnata nella famosa ed estenuante guerra dei trent’anni, i soldi non bastano mai e tasse su tasse si abbattano sui sudditi del Regno. Sia Filippo III che Filippo IV non sentono ragioni, è in gioco la supremazia e la sopravvivenza della Spagna. Viene ripetuto l’errore del 1585 anche se questa volta la tassa colpisce la frutta. All’epoca era il cibo dei poveri e tassarla voleva dire privare il popolo del suo sostentamento. Ecco che sorge un capopopolo: Tommaso Aniello detto Masaniello. I nobili si meravigliano del suo immediato successo e stando dietro le quinte ne guidano le mosse, esempio emblematico è Giulio Genovino. Il re non potendo colpire chi tira le fila chiama a corte Masaniello e sua moglie e li tratta da nobili. Questo e forse droghe scombussolano Masaniello che attirato con un inganno viene ammazzato e fa la fine dell’Assessore: mangiato, smembrato e i resti buttati nell’immondizia. Eppure dopo poco gli stessi che lo hanno ammazzato ne cercano i resti, lo ricompongono e gli tributano un funerale che fa scalpore per la quantità di gente e la disperazione del popolo. Caso più unico che raro è la rivolta del 1701 detta la congiura di Macchia, che prende il nome da Gaetano Gambacorta, principe di Macchia, che vi partecipò ma non ne fu l’ideatore, con cui la nobiltà napoletana tentò senza successo di rovesciare il governo vicereale spagnolo, durante la crisi successoria che si verificò in seguito alla morte di Carlo II di Spagna con l’estinzione del ramo spagnolo degli Asburgo. L’attuazione del piano fu tentata tra la notte del 22 e la giornata del 23 settembre 1701, ma fallì quando il viceré spagnolo fu avvisato della congiura. E giungiamo alla rivoluzione del 1799 che rappresenta nella storia di Napoli e del Mezzogiorno il salto nella Modernità culturale e politica, come se si scoprisse anche da noi il 1789 come fu per la Francia, e a proposito dice un grande storico francese che per capire meglio il 1789 bisognerebbe andare a vedere quei dieci anni dopo nella realtà napoletana. Ma io desidererei, per concludere e dare un senso a questo articolo, partire dalla celebre espressione attribuita erroneamente a Massimo D’Azeglio “L’Italia è fatta, ora van fatti gli italiani”. Tutto sommato è stato preferibile che altrettanta popolarità non sia stata acquisita da una “perla” che leggiamo nel suo Epistolario: “In tutti i modi la fusione coi Napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso!”. Forse il Marchese Massimo d’Azeglio avrebbe fatto meglio a dare ascolto a suo fratello: Prospero Taparelli D’Azeglio, che dalle pagine della Civiltà Cattolica, espresse la sua disapprovazione per lo sviluppo che ebbe il Risorgimento italiano. Fu una sparuta minoranza di “patrioti” che riuscì a prevalere, con l’appoggio internazionale ricevuto, per motivi diversi ed opposti, dall’Impero francese e della Gran Bretagna, che aiutarono diplomaticamente e militarmente l’espansione del Regno di Sardegna. Del resto, il filosofo Augusto del Noce ha significativamente definito il Risorgimento italiano “un capitolo dell’imperialismo britannico”. Anche adesso mentre l’Italia sprofonda nel mare di malaffare e incompetenze, di mazzette e ritardi, mentre la tanto osannata città della cultura affoga nel fango al pari di mezzo Meridione, si parla solo di Venezia, si stanziano fondi per lei, si attivano numeri verdi e nessun telegiornale parla dei disastri nel Sud. E poi ci si stupisce se i meridionali hanno nei confronti della politica un rapporto ambiguo. Mi meraviglia di più che politici che fino a ieri sbandieravano l’autonomia e la secessione corrono proni a Roma, ma ancora di più mi meraviglia un meridionale dalla memoria breve.
Aniello Clemente