A Castellammare, rivive la Rivoluzione napoletana del 1799 con Ciro Raia e Ciro Daino

3 dicembre 2019 | 00:15
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A Castellammare, rivive la Rivoluzione napoletana del 1799 con Ciro Raia e Ciro Daino
A Castellammare, rivive la Rivoluzione napoletana del 1799 con Ciro Raia e Ciro Daino
A Castellammare, rivive la Rivoluzione napoletana del 1799 con Ciro Raia e Ciro Daino
A Castellammare, rivive la Rivoluzione napoletana del 1799 con Ciro Raia e Ciro Daino

Grande successo per la presentazione, il 22 novembre 2019, presso il Salone Viviani di Castellammare di Stabia, dell’importante saggio “Storia di una Rivoluzione: il 1799 a Napoli” di Ciro Raia (Guida editori), nell’ambito dello “Stabia Teatro Festival – Premio Annibale Ruccello”, quarta edizione (5 Novembre- 1 Dicembre) coordinato, per la sezione della letteratura, dall’associazione “Achille Basile Le ali della lettura”, presieduta da Carmen Matarazzo. La presentazione del testo è stata organizzata dall’associazione “Trame d’autore” presieduta da Ciro Daino, con introduzione a cura dello stesso, relazione di Filomena Baratto, momenti musicali di Rosalba Spagnuolo e Francesco Cesarano, reading di Carlo Alfaro.
Ciro Raia, intellettuale lucido e autore di saggi storici sempre di grande spessore e approfondita ricerca, spiega nel libro che “ci sono periodi, come quello rivoluzionario, in cui il tempo della storia è talmente accelerato che tutto sembra totalmente nuovo, e al tempo stesso tutto irrimediabilmente vecchio. È il caso dell’idea repubblicana, della repubblica come forma di governo”.
Il suo racconto storico, minuzioso e completo nella puntuale documentazione quanto appassionante e coinvolgente e carico di pathos, rappresenta una full immersion di estrema suggestione nell’atmosfera, nelle vicende, negli avvenimenti, nella cultura, nelle emozioni, negli umori della Rivoluzione Napoletana del 1799, ispirata ai valori di Legalità, Uguaglianza e Fratellanza che permearono le idee giacobine animatrici della Rivoluzione francese di 10 anni prima, e conclusasi tragicamente nel sangue dopo appena sei mesi. Il merito di Ciro Raia è quello di rendere fruibile e piacevole il racconto di quei sei mesi con la maestria di un romanziere ma senza rinunciare alla precisione di un cronista.
La Rivoluzione partenopea è un “sogno” di giustizia e libertà, che è fallito allora ma può fallire anche oggi, nelle nostre democrazie rese fragili da ondate di ignoranza razzista e xenofoba che aleggiano in Italia e sull’Europa.
Il lavoro è il punto di approdo di una pluriennale ricerca storiografica condotta con indomita passione dall’Autore, tra scritti, atti, documenti, cronache e carteggi del tempo. Leggere le pagine di Raia donano la consapevolezza delle nostre radici per guardare al futuro arricchiti della conoscenza di uno spaccato di storia che, pur nella sua tragica brevità, ha posto le basi delle società moderne. “Storia di una rivoluzione: il 1799 a Napoli” vuol essere, oltre a essere un saggio storico, un monito alle giovani generazioni al fine di preservare la memoria del passato e definire la propria identità politica e morale.
L’inizio della campagna napoleonica in Italia, l’attività dei circoli democratici d’ispirazione giacobina e rivoluzionaria a Napoli e la fuga di Ferdinando IV, furono i presupposti che portarono, nel gennaio del 1799, alla proclamazione della Repubblica di Napoli. A capo della giunta rivoluzionaria c’erano i più noti intellettuali meridionali; la Costituzione fu elaborata da Mario Pagano. La Repubblica napoletana ebbe, però, vita breve e si dibatté tra difficoltà finanziarie e focolai insurrezionali fino a quando, nel mese di giugno, l’armata sanfedista si impossessò nuovamente della città, mettendo fine al governo repubblicano con una durissima repressione. Pregio del racconto di Raia è riportare il punto di vista e le motivazioni di tutti gli attori in scena nel momento storico indagato, compreso il popolo attraverso i versi che al tempo circolavano tra il vulgus e che, rappresentando la vox populi, ne chiariscono l’orientamento.
Nel 1799, nel Regno di Napoli, governano Ferdinando IV di Borbone e sua moglie Maria Carolina, l’uno noto per la sua superficialità, ignoranza e ridicolaggine (era soprannominato il Re “Lazzarone”) l’altra per la cieca cattiveria. E’ lei che comanda, non a caso si dice che “il vero re è la regina”. Il popolo, specialmente nella città capitale del Regno, è morbosamente legato al re e accoglie, pertanto, con diffidenza le prime esperienze giacobine nate anche sull’onda della rivoluzione francese. Poi, con l’arrivo a Napoli del generale francese Championnet e la fuga del re che, vigliaccamente, porta con sé tutti gli averi della città, prende forma l’idea della repubblica e si dà vita ad un governo, che dura in carica solo sei mesi. Presto, infatti, l’idea repubblicana affoga nella mancanza di appoggio del popolo e nell’atroce restaurazione piena di sangue innocente per l’odio covato dalla regina Maria Carolina contro ogni anelito di libertà.
La Repubblica napoletana del 1799 è il racconto di uno spaccato di storia unico, tra riformismo e utopia, tra passioni e speranze, tra creazione delle basi della moderna democrazia e rigurgiti barbari. cronaca e documentazione. E del racconto di sei mesi epici sono protagonisti lazzari e intellettuali, preti e nobili, popolane e castellane. Insieme al Vesuvio, a San Gennaro e a Sant’Antonio, testimoni o protettori di tutti gli eventi. Fino al tragico epilogo di Piazza Mercato, luogo in cui i regnanti consuma la loro sanguinaria vendetta, mandando al patibolo Eleonora Pimentel Fonseca e Luisa Sanfelice, Francesco Mario Pagano, Vincenzo Russo, Gennaro Serra di Cassano, Michele Marino-’o pazzo – e Jean-Ètienne Championnet, insieme ad altri innumerevoli martiri, provocando “un’ecatombe, un macello di carne umana, che ha stupito il mondo civile e reso attonita e dolente tutta l’Italia”.
Nato a Napoli, nel Palazzo Reale, il 12 gennaio 1751 e sempre a Napoli deceduto, a 74 anni, il 4 gennaio 1825, Ferdinando di Borbone era figlio di Carlo di Borbone (divenuto poi re Carlo III di Spagna) e della principessa Maria Amalia di Sassonia (nipote dell’imperatore austriaco Giuseppe I). Il suo regno, durato quasi 66 anni (benchè con intermezzi in cui fu destituito), è uno dei più lunghi nella storia italiana e non solo (è al nono posto nella classifica dei regni più lunghi della storia). Salì al trono come Ferdinando IV di Napoli e Ferdinando III di Sicilia (prima che le due corone fossero fuse nel Regno delle Due Sicilie) all’età di appena otto anni e mezzo. Era il figlio maschio terzogenito della coppia reale. Prima di lui, oltre a cinque principessine (quattro delle quali morte in tenera età), erano nati Filippo, erede al trono napoletano, e Carlo Antonio. Per lui si doveva prospettare un futuro da religioso, infatti la madre lo aveva destinato a una brillante carriera ecclesiastica, da cardinale e forse anche erede del trono papale. Ma quando suo padre fu chiamato nel 1759 sul trono di Spagna, a prendere la più prestigiosa corona di Spagna perchè lo zio Ferdinando VI, re di Spagna, era morto senza lasciare eredi, si trovò a salire al trono di Napoli e a quello di Sicilia, dato che il padre portò con sé Carlo Antonio quale successore, mentre il primogenito Filippo era stato escluso dalla successione perché menomato psichico. Poiché aveva appena 8 anni, gli si affiancò un Consiglio di Reggenza. Refrattario allo studio e agli impegni della vita di corte, il giovane re non s’interessò quasi per niente della politica del regno. Il giovane Ferdinando amava stare all’aria aperta, adorava la caccia, la pesca e cavalcare. Si esprimeva solo in Napoletano e alla compagnia dei cortigiani preferiva quella dei servi. Il nomignolo datogli dai lazzari napoletani di Re Lazzarone deriva dall’educazione popolana e spiccia ricevuta da ragazzo, che lo portava ad esprimersi in dialetto e senza alcuna considerazione per l’etichetta. Alexandre Dumas racconta che durante i consigli di stato aveva proibito l’uso dei calamai, perché si stancava di scrivere, e per la sua firma riuscì a far meglio di Napoleone, che ridusse la sua ad una sola lettera “N”, in quanto faceva apporre un timbro. Nel 1768, a 17 anni, sposò, per procura, attraverso un contratto matrimoniale stipulato dal Consiglio napoletano con gli Asburgo, l’arciduchessa Maria Carolina d’Asburgo, figlia dell’imperatore Francesco I e sorella di Maria Antonietta moglie del re di Francia Luigi XVI (ghigliottinati nel 1793 dalla Rivoluzione francese). La coppia ebbe ben diciotto figli, di cui nove morirono in tenera età e solo quattro sopravvissero ai genitori. Maria Carolina ha sempre esercitato su di lui un forte potere, determinando una politica napoletana prepotentemente filoaustriaca, aiutata in questo dal disinteresse mostrato dal marito per gli affari di Stato, che le lasciò campo libero. Il Re, detto anche “Nasone” per il naso importante, le fu ampiamente infedele: amava intrattenersi con donne di rango nobile dalla rinomata bellezza, ma anche con le contadine prosperose della campagna campana. Con lo scoppio della Rivoluzione francese, nel 1789, e la successiva caduta della monarchia francese e la morte sulla ghigliottina dei reali di Francia, la politica del Re di Napoli e Sicilia Ferdinando e della sua consorte Maria Carolina cominciò ad avere un chiaro carattere antifrancese e antigiacobino. Nonostante la strenua resistenza dei lazzari, fedelissimi al re, nel 1799, quando le truppe di Napoleone invasero Napoli proclamando la Repubblica Partenopea (23 gennaio 1799), Ferdinando e Maria Carolina fuggirono a Palermo scortati dall’ammiraglio Nelson, accolti con favore dal popolo siciliano. Successivamente, quando il 7 maggio le truppe francesi furono richiamate nel Nord Italia, lasciando sguarnita la capitale, approfittando dell’occasione, il cardinale Fabrizio Ruffo mise insieme il cosiddetto Esercito della Santa Fede, composto da venticinquemila uomini e supportato dall’artiglieria inglese. Dopo una rapida risalita della Calabria, i sanfedisti si ricongiunsero ai lazzari capeggiati dal bandito Fra’ Diavolo nella riconquista di Napoli, determinando il crollo della Repubblica Partenopea, con un’azione combinata tra i sanfedisti del cardinale Ruffo da terra e la marina inglese dal mare. Così i Francesi vennero scacciati da Napoli e Ferdinando ne riprese possesso, mettendo in atto violente persecuzioni dei patrioti repubblicani (l’atroce “Restaurazione”). La Famiglia Reale ritornò a Napoli il 31 gennaio 1801, accolta da festeggiamenti, archi, carri allegorici e luminarie. Sconfitto di nuovo da Napoleone nel 1805, il Re fu costretto all’esilio a Palermo per 10 anni, nel corso dei quali Maria Carolina morì, a Vienna (dove era stata esiliata, dietro pressioni britanniche, perché accusata di complotto verso l’Inghilterra) nel 1814. Il re, dopo appena tre mesi di vedovanza, convolò a nuove nozze con la duchessa siciliana Lucia Migliaccio. Il trono del Regno di Napoli, nel frattempo, fu affidato prima a Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, e poi al Maresciallo dell’Impero di Francia, Gioacchino Murat. Dopo la caduta di Napoleone a seguito della disfatta di Waterloo, nel 1816 il Re sconfisse Murat e tornò al trono del nuovo Regno delle Due Sicilie, come Ferdinando I delle Due Sicilie.
Cuore e simbolo della Rivoluzione napoletana, con la sua forza visionaria e il carisma di una donna destinata ad entrare nella storia, Eleonora Pimentel Fonsca (Roma, 13 gennaio 1752 – Napoli, 20 agosto 1799), mente aperta e illuminata, anima di profondo spessore, politica appassionata e lungimirante, intellettuale finissima, personalità di cultura estrema, letterata, poetessa e scrittrice di elevato sentire, fondatrice del “Monitore” della Repubblica, ma anche moglie sofferta e madre negata. E’ lei la vera eroina e martire della Rivoluzione napoletana del 1799. Eleonora ha espresso, nella sua vita rivoluzionaria, fino all’estremo martirio che l’ha immolata alla Storia come il simbolo della Prima Repubblica napoletana, l’ideale di una nuova costituzione ispirata ai valori di libertà, giustizia, autodeterminazione. Nata a Roma da genitori di nobili origini portoghesi, ma cresciuta a Napoli dall’età di otto anni e innamorata del popolo napoletano, del quale invano lottò per riscattare la soggezione succube e complice alla tirannide borbonica e il tenace attaccamento alla barbarie dell’ignoranza, la Fonseca si impegnò ad elaborare una strategia politica nazionale ispirata alla democrazia, molto avanti per la sua epoca. Eleonora Pimentel Fonseca emerge da gigante nell’opera di raia nella sua statura di persona eccezionale. Figlia di un padre che la spinge a farsi notare a corte per vedersi riconosciuto il suo titolo nobiliare; moglie di un uomo infame e prevaricatore; madre negata e sofferta di un figlio perso a soli otto mesi e un altro abortito per colpa del marito violento e infedele, che le impone la figlia illegittima, cui poi si lega con sincero affetto; giacobino appassionato e intellettuale raffinato e moderno; giornalista e divulgatrice instancabile di cultura e democrazia; martire politico e dignitoso morto per i suoi ideali, Eleonora è stata donna fiera nel suo dolore, coraggiosa nei suoi ideali, luminosa nella sua sensibilità, rivoluzionaria nella sua coscienza, appassionata nelle sue emozioni. “E un giorno sarà utile ricordare tutte queste cose”, furono le ultime parole, riprendendo un verso di Virgilio, pronunciate sul patibolo.
Sullo sfondo della narrazione, ma vera protagonista dell’opera di Raia, la Napoli tardo settecentesca, ricca di umori e fremiti libertari, ma anche di insormontabili pregiudizi e biechi oscurantismi, popolata da una plebe confusionaria, sporca, ladra, amorale, feroce e impulsiva fino alla bestialità.
Tanti i fatti, gli aneddoti, le notizie di cui l’Autore rivela accuratamente evoluzione, retroscena, conseguenze, ambientazione, trascinando il lettore in un vortice emotivo potente che gli permette di “sentire” l’umore di un popolo che i secoli non hanno scalfito mai del tutto nella sua impulsiva emotività. Come quando racconta che, durante la rivoluzione partenopea, su insistenza del generale francese Champonniet, il Cardinale Zurlo fu costretto per ben tre volte a esporre la famosa ampolla col sangue di San Gennaro, che si liquefece tutte e tre le volte, segno che era favorevole ai giacobini, liquefazione che indignò profondamente il re e i suoi seguaci, tant’è che, fallita la rivoluzione, i lazzari napoletani “deposero” San Gennaro e proclamarono “nuovo santo patrono e nuovo generalissimo di tutti gli eserciti napoletani” Sant’Antonio da Padova. Addirittura un simulacro di San Gennaro fu impiccato e poi gettato in mare, a sfregio delle sue simpatie giacobine. Sant’Antonio fu Patrono di Napoli per 15 anni, poi San Gennaro tornò Santo Patrono quando nel 1814 “fermò” la lava del Vesuvio, al contrario del Santo padovano, che meritò pertanto la “destituzione”. A Napoli, succede anche questo.
Carlo Alfaro