Ecco come i calciatori supereranno il trauma Covid
Festa nello spogliatoio del Napoli dopo un successo nel 2018
Fabio Cola, psicologo e docente del Supercorso, spiega perché i calciatori supereranno il trauma
l’intervista «Spogliatoio come rifugio è lì che si batte la paura»
«Una bolla intima, il luogo che si conosce meglio Saremo tutti più solidali, il nemico è la rabbia»
Il punto di ri-partenza della vita sportiva dei calciatori nel post-Covid-19, alla fine, potrà essere in particolare uno. «Lo spogliatoio, quella zona franca dove la regolarità può continuare a pulsare più o meno come prima». Fabio Cola, laureato in psicologia, consulente e formatore che, oltre ad aver collaborato con alcune società calcistiche, dal 2013 è docente nel corso master Uefa Pro a Coverciano, sulla gestione delle risorse umane, riparte da questo microcosmo. «Lo spogliatoio continuerà ad essere luogo protetto e protettivo, una sorta di casa che permetterà ai singoli di ritrovare esattamente quello di cui hanno bisogno».
Fabio Cola, sulla base del protocollo studiato dalla Federcalcio in vista di una ripartenza, però, si fatica ad immaginare uno spogliatoio come nell’ante-Covid.
«Usciremo da questa situazione con la consapevolezza collettiva che ogni luogo, potenzialmente, potrebbe essere minaccioso. Ci abitueremo anche a questo, ma i calciatori potranno sentire la regolarità tornare a pulsare in quello che è il loro spazio esclusivo, lì dove entrano soltanto loro, lì dove si torneranno a preparare le partite, permettendo alla routine di tornare a prendere il sopravvento».
L’intimità di questo spazio, dopo che visite mediche e test avranno sancito la vittoria, almeno all’interno del club, dell’uomo sul virus, può trasformarsi in un meccanismo di rivincita?
«Lo spogliatoio, per chi lo frequenta quotidianamente, è il luogo conosciuto per eccellenza, lo spazio che ciascuno dei giocatori percepisce come “meno straniero” di tutti. E’ quella bolla di intimità che li difende da tutto, anche dalle paure che magari si sono accumulate in questo periodo di stop».
In molte occasioni, i calciatori si sono avvicinati ai loro tifosi. Orsolini si è messo al telefono per chiedere come stessero, Nainggolan si è detto a disposizione per consegnare pacchi, ma gli esempi sono tantissimi. Che cosa significa?
«Che dalla paura e dall’angoscia di fare i conti col limite ci si proietta nel costruire qualcosa di utile per gli altri. La solitudine la combatti anche così. O decidendo di tornare nella tua terra d’origine, penso a Higuain e non solo: perché riunirsi al proprio nucleo familiare ti permette di contenere la paura che i tuoi cari possano essere in pericolo. E in questo modo si aumenta la resilienza. Di fronte all’emergenza siamo tutti uguali: ugualmente impotenti, ugualmente fragili».
Di certo, pur ripartendo seppur a porte chiuse, nessuno potrà immaginare di far finta di niente rispetto all’accaduto.
«Sarebbe opportuno “preparare” gli atleti (c’è già, vedi Pezzella della Fiorentina, chi si è portato avanti, trovando in uno psicologo dello sport un alleato nella programmazione di una nuova quotidianità, ndr). Il calcio potrebbe diventare lo strumento per cercare di “influenzare” la collettività con comportamenti esemplari. Assisteremo a una ondata di umanità e solidarietà crescente, ma anche a un inasprirsi di sentimenti individualistici e rabbiosi: vincere la distanza tra chi vive in condizioni estreme e chi invece può godere di benefici economici importanti potrebbe essere la chiave di volta per un rinascimento globale».
fonte:corrieredellosport