Domenica delle Palme, Papa Francesco celebra la messa in streaming: dove vederla
Papa Francesco celebrerà oggi, per la prima volta in streaming, la messa della Domenica delle Palme da una San Pietro senza fedeli per l’emergenza Coronavirus. La Celebrazione di oggi potrà essere seguita a partire dalle ore 11 in streaming sul sito del Vaticano. Sul portale della Santa Sede è disponibile anche il libretto della celebrazione. Le letture e le preghiere dovrebbero essere pronunciate solo in italiano evitando l’alternarsi di lettori in altre lingue che normalmente caratterizza le grandi celebrazioni in Vaticano. Nonostante il numero ristretto di persone che potranno essere presenti in basilica, considerate le prescrizioni contro il contagio, la celebrazione non dovrebbe essere molto diversa da quella degli anni passati, e sono previsti alcune parti della messa cantate. Nella basilica vaticana dove Bergoglio celebrerà la messa, ci sarà anche il Crocifisso di San Marcello accanto all’altare. Il pontefice pregherà anche davanti all’icona della Salus Populi Romani. Per la terza volta, il Papa, in questo periodo di pandemia, prega davanti a queste due immagini care ai romani. In basilica ci saranno delle piante d’ulivo e delle palme per la benedizione iniziale.
LA STORIA DEL CROCIFISSO DI SAN MARCELLO – “Fece la pianta e modello e poi cominciò a fare murare la chiesa di San Marcello de’ frati de’ Servi, opera certo bellissima”: la chiesa di cui parla Giorgio Vasari nelle sue Vite è quella di San Marcello al Corso, anticamente nota come San Marcello in via Lata, lo splendido edificio che si trova nel tratto finale di via del Corso, quasi arrivati in piazza Venezia, e l’autore è l’architetto fiorentino Jacopo Sansovino (Jacopo Tatti; Firenze, 1486 – Venezia, 1570), che nel 1519 si occupò della sua ricostruzione, proseguita poi per molto tempo a causa di diverse vicissitudini (il sacco di Roma che allontanò il Sansovino dalla città, un’alluvione, ritardi varî), tanto che solo a Seicento inoltrato la chiesa poté essere completata con la facciata progettata da Carlo Fontana (Rancate, 1638 – Roma, 1714). L’edificio precedente, che aveva un orientamento diverso (la facciata era sul lato opposto rispetto all’attuale), era andata distrutta nella notte tra il 22 e il 23 maggio del 1519: tradizione vuole che l’unico manufatto a sopravvivere dall’incendio fosse un crocifisso ligneo che decorava l’altare maggiore.
Si tratta di un’opera del tardo Trecento, della quale tuttavia ignoriamo l’autore: all’epoca, Roma registrava una cospicua presenza di manufatti simili, opere spesso considerate taumaturgiche e per questo oggetto di costante devozione, soprattutto in epoca di Controriforma, quando la Chiesa doveva ripristinare una fede che andava vacillando sotto l’ondata della Riforma protestante. Il crocifisso di San Marcello al Corso, collocato dagli studiosi (da ultima la storica dell’arte Claudia D’Alberto) agli anni Settanta del Trecento, è inserito in una fitta rete di rimandi a opere simili, presenti nelle chiese romane, e risalenti allo stesso periodo: il nostro, per esempio, è posto in rapporto di dipendenza col più antico crocifisso della chiesa di San Lorenzo in Damaso, dal quale riprende la struttura con la parte superiore del corpo che forma un triangolo, il fortissimo patetismo del volto sofferente, le costole e i pettorali molto segnati. C’è una distanza di circa cinquant’anni tra le due opere (quello di San Lorenzo in Damaso risalirebbe al primo decennio del Trecento), e di conseguenza l’opera di San Marcello al corso si presenta stilisticamente più aggiornata, ma la matrice è comune: il modello, nello specifico, sembrerebbe arrivare dal nord Europa, circostanza tenuta a quel tempo in grande considerazione in quanto il crocifisso di San Lorenzo in Damaso sembrerebbe collegato al culto di santa Brigida di Svezia. La patrona dello stato scandinavo, vissuta tra il 1303 e il 1373, trascorse l’ultima parte della propria esistenza a Roma, e dai suoi scritti (in particolare dal Sermo Angelicus) parrebbe che fosse una devota del crocifisso di San Lorenzo in Damaso: facile dunque immaginare come gli artisti si siano prodigati in numerose riproduzioni dell’immagine archetipa, e lo stesso crocifisso di San Marcello al Corso ne è una prova.
Ad ogni modo, il crocifisso, uscito illeso dalle fiamme che distrussero la chiesa di San Marcello al Corso nel 1519, fu subito ritenuto miracoloso dalla popolazione, e questa sua luminosa fama crebbe quando, nell’agosto del 1522, il cardinale spagnolo Raimondo Vich, vescovo di Valencia e Barcellona, per scongiurare una pestilenza che era scoppiata a Roma volle portare il crocifisso in processione in tutta la città. Il rito durò diciotto giorni e terminò con l’ingresso del crocifisso di San Marcello in Corso nella basilica di San Pietro: nel frattempo, l’epidemia aveva subito un rallentamento, e quest’evento contribuì alla nomea del crocifisso, che diventò poi protagonista di ulteriori processioni, perché fin da allora si è mantenuta l’usanza di portare il crocifisso da San Marcello al Corso in occasione di anni santi o di eventi particolari. La processione del crocifisso di San Marcello è dunque attestata durante diversi giubilei: nel 1675, dell’apparato scenografico allestito attorno alla processione si occupò lo stesso Carlo Fontana, un’ulteriore processione venne organizzata per il giubileo straordinario del 1933-1934, e il crocifisso fu ancora al centro degli eventi religiosi per il giubileo del 2000, quando fu portato in San Pietro e venne abbracciato da Giovanni Paolo II in occasione della Giornata del perdono. Gli eventi ci portano poi al 27 marzo del 2020, quando il crocifisso compie ancora il percorso da San Marcello al Corso a San Pietro, ma senza processione a causa delle misure di contenimento messe in atto per contrastare la pandemia di Covid-19 da coronavirus abbattutasi sul mondo intero: in questa occasione, papa Francesco fa sistemare il crocifisso davanti all’ingresso della basilica di San Pietro per invocare la grazia di Dio contro il dilagare della pandemia.
Tornando alla storia antica, l’evento del 1522 spinse un gruppo di fedeli, guidati da alcuni nobili romani, a fondare quello stesso anno una confraternita, la Compagnia dei disciplinati, il cui statuto fu approvato da papa Clemente VII nel 1526 e confermato da Giulio III nel 1550. I confratelli ottennero il giuspatronato della quarta cappella di destra della nuova chiesa di San Marcello al Corso: si tratta dell’ambiente che, tuttora, ospita il crocifisso trecentesco. Uno dei primi provvedimenti dei confratelli fu quello di ornare di affreschi la cappella, e per farlo decisero di rivolgersi a uno dei più importanti pittori dell’epoca, Perin del Vaga (Piero di Giovanni Bonaccorsi; Firenze, 1501 – Roma, 1547). A raccontare la vicenda è ancora Giorgio Vasari nelle Vite: “per le lode dategli nella prima opera fatta in San Marcello, fu deliberato dal priore di quel convento e da certi capi della Compagnia del Crocifisso, la quale ci ha una cappella fabbricata dagli uomini suoi per ragunarvisi, che ella si dovesse dipignere; e così allogarono a Perino questa opera, con speranza di avere qualche cosa eccellente di suo”.
Perin del Vaga decorò la cappella presumibilmente tra il 1525 e il 1527 prima di lasciare la città, anch’egli per il sacco di Roma, tanto che a terminare gli affreschi in seguito fu Daniele da Volterra (Daniele Ricciardelli; Volterra, 1509 – Roma, 1566), e forse il progetto originario subì delle modifiche, perché oggi a essere decorata è soltanto la volta della cappella, mentre il resto del locale è disadorno. Inoltre, un rovinoso restauro del 1866 ha causato la perdita di alcune figure che decoravano la volta: in particolare, non vediamo più gli angeli con gli strumenti della Passione e gli ignudi sistemati sulle cornici dell’arco (sostituiti da moderne decorazioni in stucco). Perino dipinse, al centro della volta, la scena della Creazione di Eva, mentre sui lati gli evangelisti: eseguì in autonomia le figure di Marco e Giovanni, mentre quelle di Matteo e Luca furono condotte a termine dal pittore volterrano. È sempre Vasari a descrivere con chiarezza questi lavori: “fece nella volta a mezza botte, nel mezzo, un’istoria quando Dio, fatto Adamo, cava della costa sua Eva sua donna, nella quale storia si vede Adamo ignudo, bellissimo et artifizioso, che oppresso dal sonno giace, mentre che Eva vivissima a man giunte si leva in piedi e riceve la benedizzione dal suo fattore: la figura del quale è fatta di aspetto ricchissimo e grave, in maestà, diritta, con molti panni attorno, che vanno girando con i lembi l’ignudo; e da una banda a man ritta due Evangelisti, de’ quali finì tutto il S. Marco et il San Giovanni, eccetto la testa et un braccio ignudo. Fecevi in mezzo fra l’uno e l’altro, due puttini che abracciano per ornamento un candeliere, che veramente son di carne vivissimi, e similmente i Vangelisti molto belli, nelle teste e ne’ panni e braccia e tutto quel che lor fece di sua mano”.
Se i santi Marco e Giovanni sono molto rovinati (infiltrazioni di umidità hanno danneggiato in modo grave le pitture) e gli altri sono in parte segnati dall’intervento di Daniele da Volterra, che al tempo del completamento (tra il 1540 e il 1543) era un poco più che trentenne aiutante di Perin del Vaga che però cominciava anche a maturare i primi lavori da artista indipendente, il riquadro centrale con la Creazione di Eva è una delle più fini attestazioni dell’arte di Perin del Vaga, che fonda il suo stile sulla semplicità compositiva, sull’impiego di forti cangiantismi, sulla monumentalità dei volumi che rimandano a precedenti michelangioleschi (e questo vale anche e soprattutto per gli evangelisti), sulle pose elaborate. La Creazione di Eva è peraltro opera che suscitò l’interesse di un grande storico dell’arte come Giuseppe Fiocco, che nel 1913, in un suo saggio pubblicato sul Bollettino d’arte, dopo aver ricostruito la storia dell’opera, criticò dapprima la figura del Padre Eterno, “dalla bella testa liberamente inspirata al Mosè del Buonarroti”, ma “che ha come affogato il corpo nei molti avvolgimenti dei panni”, e “l’Eva corpacciuta, anche se vivacissima nel movimento”, per poi lodare senza riserve “il nudo artificioso dell’Adamo, meno pedissequamente calcato sovra il suo terribile modello, e riuscitissimo nell’abbandono del sonno e nell’elegante proporzione del corpo”. Un nudo che non sarà difficile far risalire, data la posa, al Dio fluviale di Michelangelo oggi proprietà dell’Accademia delle Arti del Disegno. Fiocco sottolineava poi i rimandi raffaelleschi, in particolare nei putti che animano i riquadri con gli evangelisti e che richiamano il Raffaello degli affreschi di Santa Maria della Pace.
Non sono queste però le uniche opere d’arte che accompagnano la storia del crocifisso di San Marcello al Corso: ci sono infatti dipinti che ne narrano addirittura le vicende. Nel 1564, la Compagnia dei disciplinati fu elevata al rango di arciconfraternita e di conseguenza aumentò il numero di membri, così che il sodalizio ebbe la necessità di dotarsi di una nuova sede, di un luogo di culto più grande della cappella nella chiesa di San Marcello al Corso: già qualche anno prima, nel 1556, due membri della confraternita, Cencio Frangipani e Tommaso de’ Cavalieri (Roma, 1509 – 1587), quest’ultimo noto per la sua grande amicizia con Michelangelo, individuarono il possibile luogo (un terreno occupato da due stalle, non lontano dalla chiesa di San Marcello al Corso) sul quale sarebbe stato edificato l’Oratorio del Crocifisso. La prima pietra fu solennemente posata dal cardinale Ranuccio Farnese (una lapide ricorda che il cantiere poté partire grazie alle risorse offerte da lui e da suo fratello Alessandro) il 3 maggio del 1562 e l’edificazione dell’oratorio terminò già l’anno successivo: i lavori però furono completati nel 1568 quando fu eretta la facciata, su progetto del giovane architetto Giacomo della Porta (Porlezza, 1532 – Roma, 1602), che fu responsabile dell’intero edificio (aveva solo trent’anni quando fornì il disegno dell’oratorio alla confraternita). Negli anni seguenti si succedettero gli interventi artistici: il soffitto ligneo a lacunari fu terminato tra il 1573 e il 1574 (sarebbe stato poi sostituito nel 1879), e tra il 1578 e il 1583 si procedette con gli affreschi delle pareti laterali, che dovevano raccontare le Storie della Croce, alle quali attesero, sotto la supervisione dello stesso Tommaso de’ Cavalieri e del pittore Girolamo Muziano (Acquafredda, 1532 – Roma, 1592), alcuni tra i più grandi pittori del tempo, e cioè Giovanni de’ Vecchi (Borgo Sansepolcro, 1536 circa – Roma, 1614), a cui si deve l’elaborazione dello schema generale, Niccolò Circignani detto il Pomarancio (Pomarance, 1530 circa – dopo il 1597), Cesare Nebbia (Orvieto, 1536 – 1614), l’altro Pomarancio, ovvero Cristoforo Roncalli (Pomarance, 1553 circa – 1626), Baldassarre Croce (Bologna, 1558 – Roma, 1628) e Paris Nogari (Roma, 1536 circa – 1601). De’ Vecchi era il pittore preferito di Alessandro Farnese, Nebbia era il migliore degli allievi di Muziano, Circignani aveva lavorato con tutti gli altri tre, mentre Croce, Nogari e Roncalli furono “reclutati” dal cantiere della Gallerie delle Carte Geografiche del Vaticano, dove tutti e tre furono attivi negli anni Ottanta insieme a Circignani (fu con tutta probabilità lui a raccomandarli ai suoi colleghi).
La controfacciata fu invece interamente decorata con affreschi che raccontano le storie della confraternita, nelle quali sono ovviamente incluse le vicende del crocifisso miracoloso di San Marcello al Corso. In ordine di lettura cronologica delle vicende narrate, abbiamo il crocifisso di San Marcello che sopravvive all’incendio della chiesa (opera di Cristoforo Roncalli), la processione del crocifisso del 1522 (di Paris Nogari), l’approvazione degli statuti della Compagnia dei disciplinati (di Baldassarre Croce) e la fondazione del convento delle monache cappuccine al Quirinale (di Cristoforo Roncalli): quest’ultimo fu innalzato nel 1571 dalla Compagnia dei disciplinati dopo aver ricevuto in dono l’area che avrebbe ospitato l’edificio dalla nobildonna Giovanna d’Aragona Colonna, duchessa di Tagliacozzo. La decorazione della parete d’ingresso cominciò nel 1583, subito dopo il completamento delle pareti laterali (lo ipotizziamo sulla base dell’unico pagamento che si conserva, relativo alla scena della fondazione del convento delle cappuccine del Quirinale): gli affreschi furono condotti stilisticamente in maniera molto omogenea, tanto che la scena con l’approvazione degli statuti fu in passato attribuita a Nogari, ma nel 1963, durante i lavori di restauro che interessarono tutto l’oratorio, fu scoperta la firma di Baldassarre Croce e fu possibile dunque ricondurre al bolognese la scena. Tipici esempî della maniera romana, gli affreschi dell’Oratorio del Crocifisso si distinguono per la loro grande facilità di lettura, la presenza di poche figure dotate di proporzioni importanti, l’ampiezza dei volumi (si vedano le figure in primo piano nella scena della processione). Sulle scene spiccano quelle di Cristoforo Roncalli, che si distinguono da quella di Croce (quest’ultima peraltro piuttosto rovinata) e dall’episodio raffigurato da Nogari per una maggior precisione formale, per le figure meno stereotipate, per il linguaggio più potente (basti vedere la figura in primo piano nella scena dell’incendio).
L’Oratorio continuò a subire rimaneggiamenti nei secoli successivi, a cominciare dall’altare maggiore, risistemato nel 1740 per accogliere meglio il crocifisso cinquecentesco, ispirato a quello di San Marcello al Corso, donato da un fedele nel 1561. Diversi restauri si susseguirono nell’Ottocento, dal momento che la chiesetta fu danneggiata durante l’occupazione napoleonica, mentre tra l’Ottocento e il Novecento la perdita di fedeli e la minor attività della confraternita gettarono l’oratorio nell’oblio: solo nel 1963, quando l’edificio fu affidato alle cure delle Suore di Betania, venne risollevato con un restauro diretto da Arnolfo Crucianelli, e ulteriori interventi sono stati condotti nel 1989 e nel 2000, questi ultimi in occasione del giubileo di quell’anno, con il restauro della facciata. Oggi, l’Oratorio del Crocifisso è sede dell’Oratorio Musicale Romano, che prosegue la secolare tradizione dei concerti di musica sacra che si sono sempre tenuti all’interno dell’edificio fin dal Cinquecento.
Quanto al crocifisso di San Marcello al Corso, l’opera continua a essere oggetto di forte venerazione. E a mantenere in vita il culto dell’opera miracolosa è oggi l’arciconfraternita del Santissimo Crocifisso in Urbe, erede della Compagnia dei disciplinati, e attiva nell’edificio di culto di via del Corso, che seguita ad accogliere migliaia di fedeli e devoti che accorrono a pregare davanti a questa scultura. Come da cinquecento anni a questa parte.
Fonte Finestresull’Arte