Positano, Nocelle. L’artista Aniello Cinque alla scoperta dei suoi antenati: “Forti connessioni tra la guerra e il coronavirus”
Positano, Costiera amalfitana. Nella frazione di Nocelle, ma non solo, è famoso il nome di Aniello Cinque. Per i pochi che non lo conoscessero, Aniello è un grande artista che, dopo aver conseguito nel 1988 il Diploma di Laurea in Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, nel 1990 si è trasferito a Roma, dove ha lavorato nell’ambito teatrale, oltre ad una breve parentesi nel settore cinematografico. Ora, dal 2005 organizza e crea eventi culturali dedicati all’arte nelle sue diverse forme espressive.
Circa un anno fa, Aniello si è imbattuto in un vecchio mobile che ha rovistato da cima a fondo, trovando alcune memorie del passato che risalgono agli antenati. Tra questi cimeli emergono sette camicie. Non sono sette camicie dimenticate, ma altrettanti indumenti appartenuti ai soldati che hanno combattuto la prima guerra mondiale. Tra questi, Giuseppe Cinque, classe 1893, nonno dell’artista, che da qui è partito per dare corpo al suo nuovo lavoro.
La riflessione con Barbara Cangiano, de Il Mattino. «Una coincidenza – ammette – visto che il mio lavoro è iniziato oltre un anno fa. Ma credo ci siano delle forti connessioni tra quella guerra e questa. In questo caso forse è anche peggio, perché combattiamo contro un nemico invisibile». Servendosi delle materie della sua Nocelle di Positano, giocando con calce, pomice, pietre e naturalmente con le camice, Cinque ha così dato vita a una narrazione molto particolare. «Nei mesi scorsi sono andato a scartabellare tra i faldoni dell’Archivio di Stato di Salerno per ricostruire la storia di mio nonno – racconta – Mi ha colpito una scoperta. Intorno ai 50 anni, una volta di ritorno dal fronte, iniziò a soffrire di una strana malattia e ad accusare tremori che i medici non riuscivano a spiegarsi. Questo particolare mi ha spinto a documentarmi sugli effetti psicologici delle guerre sugli esseri umani. Ho letto tanto e ogni storia ha una sorta di filo rosso. Il presupposto dei conflitti è nella logica diabolica e persuasiva costruita sull’idea di un nemico da annientare attraverso una sapiente e ben strutturata campagna di strumentalizzazione delle masse. In buona sostanza le guerre si assomigliano tutte, oggi come allora, una fucina per rimpinguare le casse. Mi sono chiesto che senso avrebbe avuto ancora parlarne, quando tanti prima di me hanno affrontato questo tema. La ragione l’ho trovata nella figura di mio nonno, un giovane come tanti, strappato violentemente alla sua terra e scagliato nella barbàrie umana, con il risultato di uscirne traumatizzato». Ecco perché nella installazione di Cinque – di 2,37 cm x 2,37 centimetri, ancora in fase di elaborazione – non c’è possibilità di scampo, non c’è riscatto, se non la riflessione. È il pensiero ad essere chiamato in causa, quel pensiero che continua a viaggiare tra paure e vessazioni. «La mia attenzione si è focalizzata sui danni psicologici che la guerra ha prodotto sui giovani. Coloro che tornarono non furono mai più gli stessi di prima, qualcosa si era inevitabilmente frantumato deflagrando al loro interno – spiega – Spesso non viene considerato che sono esseri umani costituiti da anima, cuore, sensibilità, non una categoria, né un ruolo, né una macchina distruttrice. Riflettersi per riflettere sui danni senza né date, né epoche, né etnie, ma solamente storie di uomini. Oggi la guerra è mutata, utilizzando nuove armi e strategie, ma lo scopo non è cambiato: mietere vittime innocenti ovunque nel mondo». E c’è un altro aspetto a non essere, purtroppo, cambiato: la sensazione che questa deflagrazione, ieri come oggi, lasci dei segni indelebili e transgenerazionali.
Foto: Massimo Capodanno