Vincitori e vinti: don Blasco dei Viceré di De Roberto e Don Gesualdo di Verga
Il raggiungimento dell’unità e indipendenza nazionale portò l’Italia a un governo maggiormente orientato verso il liberalismo e al progressivo emergere, anche a funzioni dirigenti, di quella che si può chiamare la prima borghesia italiana. Il crollo del sistema politico e sociale legato all’età della Restaurazione favorì naturalmente questo importante fenomeno. Prima del Risorgimento la classe dirigente italiana (o meglio, quella dei diversi Stati della penisola) era essenzialmente rappresentata dall’aristocrazia terriera alleata con la Chiesa. Come sempre in passato, e come a dir vero ancor oggi, la situazione politico-sociale della penisola mostrava, all’indomani dell’unità nazionale, una profonda divaricazione tra la sua parte settentrionale e la sua parte meridionale. Il momento in cui i due grandi centri dell’illuminismo settecentesco di Napoli e Milano parvero spingere unitariamente verso un autentico rinnovamento ebbe una durata relativamente breve. La sconfitta del giacobinismo meridionale e l’emigrazione dei suoi esponenti a Milano impoverirono il Mezzogiorno anche sotto questo aspetto, sicché la borghesia di questa parte d’Italia fece la sua comparsa proprio nel periodo post-unitario. La formazione di una nuova classe di proprietari terrieri derivò qui dalle direttive dell’Italia unita di espropriare le vaste proprietà della Chiesa per rivenderle sul libero mercato, il che significava, da parte dei nuovi ricchi, l’acquistarle a basso prezzo. Si pensi al don Blasco dei Viceré di De Roberto o al Don Gesualdo di Verga. Per quanto il noto ciclo dei vinti di Verga si iscriva nel principio positivistico della lotta per la sopravvivenza e intenda tradurre in forme letterarie i motivi di fondo delle teorie di Darwin, bisognerà anche ammettere che, nel profondo, i suoi romanzi e novelle, riflettono con molta nitidezza una realtà storica tutt’altro che fantasiosa o meramente ispirata allo studio psicologico del cuore umano. I “vinti”, furono anche i vinti delle ferree leggi del libero mercato instaurato dopo il 1861. Mentre la politica dei Borboni, per quanto retriva e paternalistica, aveva sempre mirato, per inettitudine o immobilismo, a favorire i poveri rispetto alle classi medie, la nuova legislazione piemontese non solo consentì ma favorì l’ascesa dei prezzi agricoli. Le trasformazioni economiche, naturalmente, spazzarono via il vecchio paternalismo e ciò costituì senza dubbio un passo in avanti, ma la sua sostituzione con una libertà di commercio promossa e condotta senza direttive lungimiranti e soprattutto in opposizione e dispregio delle emergenti istanze del socialismo, finì per allargare il divario tra i ceti privilegiati e le plebi sempre più affamate e miserande. L’atto di nascita della borghesia meridionale e il suo apparente messaggio di libertà, democrazia e progresso passarono inevitabilmente (in collusione con la vecchia aristocrazia) attraverso una nuova forma di oppressione: l’oppressione, intendo dire, dello sfruttamento economico. Non si può dire che l’aristocrazia italiana avesse, come classe sociale, l’importanza politica che ebbe quella della Germania o che godesse dell’esperienza di governo che possedette quella inglese. Il quadro che ne diede a metà del Settecento Giuseppe Parini è quanto mai eloquente: una classe frivola, parassitaria, assolutamente disimpegnata, indegna delle proprie origini e dei suoi stessi antenati . A tale aristocrazia in sostanza, che certo non aveva mai brillato nei secoli precedenti, non rimaneva che il prestigio del rango sociale, anch’esso naturalmente, per via dei tempi, in costante declino. Diceva Carlo Cattaneo che essa affondava le proprie radici nella terra come una vecchia pianta alla quale non stia a cuore se non la propria comoda immobilità, tant’è che, sul piano politico, fu a poco a poco sostituita da quegli homines novi (i Pirelli, i Breda, gli Orlando) che giunsero a guadagnarsi un seggio in Senato attraverso la loro operosità e imprenditorialità industriale. E se comunque al Nord essa si veniva via via fondendo con il resto della società, nel Mezzogiorno d’Italia questi aristocratici persistevano nel rimanere dei buoni a nulla orgogliosamente e scioccamente legati a un passato di anacronistico prepotere. Nel grande “romanzo” il Decameron di Giovanni Boccaccio, avevamo veduto la vittoriosa borghesia mercantile del Due-Trecento imporre alla feudalità sconfitta il proprio modo di pensare e la propria spregiudicatezza nell’agire e, in certo modo, sostituirsi ad essa assorbendone i costumi; in quest’altro di fine Ottocento vediamo il contrario: la riscossa dell’aristocrazia che finge di abdicare ai propri secolari pregiudizi per inserirsi stabilmente, e parassitariamente, nel nuovo sistema liberal-borghese .
Aniello Clemente
Cf. Ugo Dotti, Gli scrittori e la storia, I. Il Mezzogiorno e la crisi del realismo nella narrativa tra Otto e Novecento, De Roberto – Verga – Pirandello, Nino Aragna Editore, Torino 2012, 5-48, qui 1-6.