Sorrento. La Banda di Paese del pittore Antonino Stinga foto

La Banda di Maggio” è uno scritto di Vincenzo Stinga, pittore di origini sorrentine ma romano di adozione “ricercatore di semplicità complesse” come ama definirsi, che nella sua lunga carriera ha raccolto lusinghieri apprezzamenti da Paolo Ricci, Massimo Bignardi, Gino Grassi, Lorenza Mazzetti, Edoardo Cintolesi e Michele Prisco, per citare solo alcuni dei suoi estimatori. La sua “banda di maggio” è storia di uomini ribelli, anzi di musicisti “antifascisti”, che all’imposizione da parte del Podestà di allora di suonare le classiche marcette di regime invece della musica prevista per San’Antonino “dei Giardinieri”, risposero con un rifiuto. A seguito di questo diniego, seguirono tafferugli, il servizio di piazza si concluse con una fuga a Casarlano, zona collinare di Sorrento, dove i musicisti fuggitivi trovarono protezione per qualche settimana fino a quando tutti gli attori di questa vicenda non vennero a più miti consigli. Tra gli elementi della banda ci fu chi finì in camera di sicurezza per qualche giorno, e chi durante la latitanza, per scherno, suonò tromba e trombone dall’alto della collina facendo arrivare il “suono della ribellione” fino a valle. Questi in estrema sintesi i fatti, ed è innegabile che i musicisti si dimostrarono coraggiosi e folli allo stesso tempo in un periodo, quello del ventennio fascista, dove il mite borghese la faceva da padrone. In pediatria ci sono i “no che aiutano a crescere” in politica “quelli che aiutano la democrazia”, il no dei suonatori sorrentini fu uno di questi. La banda di musici ribelli torna oggi all’attenzione dell’opinione pubblica grazie alla produzione pittorica di un altro Stinga, il giovane Antonino, che è oltretutto musicista, non solo pittore. Incontro Antonino Stinga presso il “Bar Veneruso”, a Sorrento, dove sono esposti i suoi quadri, olii e acquerelli, della sua prima personale curata da Maria Cappuro sempre disponibile alla promozione di talenti e a proporre mostre di spessore. Antonino, mi confessa che l’amore per il disegno lo ha coltivato fin da bambino. Ha imparato a leggere sui fumetti di Andrea Pazienza, e a disegnare osservando il padre, Michele, che fu oltre che ottimo batterista, grande divoratore di “letteratura disegnata” come ama definirla Hugo Pratt. Antonino Stinga, dopo le scuole dell’obbligo di rito, ha frequentato l’ Accademia di Belle Arti, e la sua scelta è caduta su quella di Urbino sempre per una questione di “amore a prima vista”. Urbino con il suo Palazzo Ducale, e la su Galleria Nazionale delle Marche con la splendida cornice architettonica curata dal Laurana, che ospita artisti quali Raffaello, Piero della Francesca di cui spicca la famosa Flagellazione di Cristo; Paolo Uccello, Tiziano e Melozzo da Forlì, lo conquistarono subito. Studiando le tele di Antonino, e discorrendo con lui del suo approccio alla pittura, mi convinco sempre più che appartiene a quella categoria di artisti che dipinge ciò che prova, non quello che vede. La sua personale dal titolo “La Banda di Paese” induce lo spettatore a calarsi tra i musicisti, a “provare” quello che sentono i suonatori colti in vari momenti della loro performance. Nei suoi lavori a olio Stinga predilige i neri come i rossi assoluti, il non colore per eccellenza, usato per i pantaloni, contrasta con il colore della passione che risplende sulle giacche. I musicisti ritratti dal pittore emergono con prepotenza dalla tela. Ma nello stesso tempo l’autore sorrentino non dà loro un’identità, i loro volti non sono definiti, penso al quadro dedicato ai tamburini. Il viso dei suonatori di Stinga sparisce alla vista dello spettatore perché è l’atto del percuotere il tamburo, come quello del soffiare nella tromba, o nel trombone, il vero protagonista della narrazione iconografica. Anche le pennellate sono nette, come se in alcuni casi fosse il musicista Stinga a “percuotere” la tela con le bacchette della sua batteria, strumento che ha studiato avendo come maestro Tullio De Piscopo. In certi quadri de “La Banda di Paese” si ha quasi la sensazione di trovarsi di fronte a una forma di sinestesia, anzi di cromoestesia: i suoni sono stati dal pittore sorrentino tradotti in colore e la tela è quasi uno spartito, ci sembra quasi di udire il brano che la banda sta suonando. Negli acquerelli invece Antonino Stinga abbandona questa “sinestesia” e diventa più intimistico. I musicisti lì ritratti non fanno più parte della banda, sono figure solitarie e riflessive talvolta personaggi hopperiani, se mi passate l’espressione. I suoi paesaggi, per scelta di colori, mi ricordano il Rodolfo Marma del “Mercatino di San Piero”, mentre i nudi femminili profondamente malinconici, con l’uso del colore ora intenso, ora tenue, Francesco Menzio senza alcun dubbio. Di Antonino Stinga sentiremo sicuramente ancora parlare, ha molte cose da dire e da mostrarci in pittura, è un autore in crescita. Sun Tzu, nell’Arte della Guerra, racconta che i tamburini erano schierati sulle ali, guidavano gli eserciti sia di giorno sia di notte, spesso pagavano con la vita il loro prezioso aiuto. Antonino Stinga con le sue bacchette e i suoi pennelli si è schierato come un tamburino e ci guiderà in musica o in pittura, perché un vero artista di talento quale lui è, deve saper fare questo, prendere posizione sulla collina della vita e segnalarci la sua originale visione di come la battaglia potrebbe essere combattuta, lasciandoci però sempre l’ultima scelta.
di Luigi De Rosa