Minori. La storia di Maria Carmale Staibano: «Io, ultima formichella»

20 ottobre 2020 | 09:40
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Minori. La storia di Maria Carmale Staibano: «Io, ultima formichella»

La storia Maria Carmela Staibano, 94 anni, racconta i duri anni del lavoro nei terrazzamenti di Minori «Io e le mie compagne andavamo su e giù per ripide scale portando in testa sporte di ben 60 chili di limoni»

Su e giù per antiche scale di pietra, lungo infiniti terrazzamenti realizzati strappando con le mani la terra alla montagna, destinati soprattutto alla coltivazione dello Sfusato amalfitano. Bisognava avere buone gambe, equilibrio, forza e leggerezza del passo per sostenere sul capo una cesta di sessanta chili di limoni e correre giù alla strada per consegnare la frutta profumata e subito, nemmeno il tempo di riprendere fiato, risalire con la sporta vuota, pronta per un nuovo carico. Di viaggi così la minorese Maria Carmela Staibano, classe 1926, ne ha fatti davvero tanti. È l’ultima delle formichelle – così venivano chiamate le, a volte gracili, minute portatrici dell’oro giallo – che racconta, con la serenità di chi ha sempre lavorato, una storia personale ma universale di donna, fatta di sacrifici immani, ma anche di tacita accettazione della vita, fin da quando giovanissima lavorava con il padre. Antonio costruiva macere in Costiera amalfitana, i muri a secco fatti di pietra che caratterizzano il paesaggio unico al mondo della Divina. «Papà faceva il muratore – ricorda Maria Carmela – e io andavo appresso a lui per aiutarlo: portavo le cardarelle con la calce e le pietre. Si era preso un giardino giù alla Mortella e quando bisognava coprire le piante di limoni per l’inverno portavo anche le frasche. Erano tutte scale, andavo avanti e indietro senza fermarmi. Signore ti ringrazio, ero buona a tutto! A volte veniva anche mio fratello ad aiutare papà, ma dovevo sempre trasportare tutto io mentre lui si metteva vicino a mio padre per fare un lavoro più leggero. Ogni tanto papà gli diceva: guagliò, mo’ tocca a te, scendi un po’ tu giù a portare le cufunelle e così avevo un po’ di respiro, potevo fermarmi un attimo».

IL MESTIERE Dal trasporto di calce e pietre a quello dei limoni il passo è stato breve. Maria Carmela Staibano, come altre giovani donne, vestite di scuro come si usava un tempo, stagliava la propria figura lungo le ripide scale di pietra. Lei e le sue compagne correvano in fila a riempire e svuotare le ceste di limoni nel periodo del raccolto. Sembravano tante formichelle che alacremente lavoravano dall’alba al tramonto usando, come uniche protezioni, delle cioce di stoffa ai piedi e sulla testa un cappello imbottito sul quale mettere sacchi di juta per tutelare il capo e il dorso, prima di adagiarvi la cesta piena di limoni. Prima di loro, tante altre portatrici di limoni, dalla fine dell’800 al 900, avevano animato i terrazzamenti costieri, soprattutto quando il limone venne utilizzato non solo in cucina ma soprattutto contro lo scorbuto; poi iniziò il declino della produzione dello Sfusato per l’arrivo sul mercato di limoni provenienti dalla Spagna e dalla Grecia. «Io carriavo’ limoni con tre o quattro compagne mie – mi ricordo solo di Giuseppina – poi, quando ho smesso di farlo, non le ho più viste. L’ho fatto per tanti anni, ma prima di uscire di casa dovevo pensare ai bambini: il più piccolo, Pasquale, lo tenevo legato seduto nella culla con una fettuccia pesante annodata alla punta del busto, così poteva muoversi senza rischiare di cadere dalla culla. La mattina andavo a lavorare presto, facevo anche sette o otto viaggi al giorno», ricorda Maria Carmela che, pur facendo un lavoro duro, si riteneva fortunata. «Una mattina andai con mio padre in un albergo a Ravello, credo il Palumbo, per aiutarlo a fare un muro – confida – C’erano dei ricchi clienti che ci commiseravano: povera gente che si accontenta di ciò che Dio gli manda. Ma noi eravamo felici davvero, non ci consideravamo poveri, avevamo le nostre merende di pane, olio e pomodori e ridevamo alle spalle dei signori». Un giorno per lei cambiò tutto. Bastò un pensiero improvviso, mentre scendeva lungo le scale ripide con la sporta in testa: «Se cado con questo peso addosso e mi faccio male, che me ne faccio della vita mia? Noi portatrici non avevamo nessuna tutela. È stato un attimo, il giorno dopo, con la scusa di andare a trovare mia figlia a Positano, ho bussato alla porta di un albergo, Il 61, dove abitavano delle signore che conoscevo, ho chiesto loro di poter lavorare lì, qualunque cosa pur di non tornare a trasportare sporte». Oggi, a Minori, lungo il Sentiero dei Limoni, una targa ricorda il lavoro prezioso delle formichelle.

Fonte Il Mattino, Claudia Bonasi