Enzo Nasillo e il suo romanzo sull’Africa
Torino. “Da Dietro quei vetri che sono i nostri occhi”, di Enzo Nasillo, con la prefazione del re del make-up René Bonante e il commento finale della star neomelodica Ida Rendano, è qualcosa di più di un libro, per quanto gradevolissimo da leggere. E’ una dichiarazione d’amore all’essere umano.
Enzo Nasillo non è il vero nome dell’autore, napoletano di Ponticelli, ma è da anni che tutti lo conoscono così: all’anagrafe Vincenzo, deve il soprannome a quel profilo gentile del viso che sin da giovanissimo lo avviò alla carriera di ragazzo-immagine e modello. Enzo è una simpatica contraddizione: ha 40 anni ma appare come un eterno adolescente, ha un’immagine di estrema eleganza e sofisticata raffinatezza che dalle foto sui social può apparire di una persona esibizionista e vanitosa, ma nell’animo è di una semplicità e bontà quasi infantili. Come tutte le persone umili e sensibili, ha un cuore puro e generoso: ama la gente, la famiglia, il lavoro, gli amici, la Natura. Da un cuore così nobile non poteva che nascere il desiderio di fare concretamente qualcosa di buono per gli altri: Enzo ha scelto il Kenya, dove ha adottato il suo amatissimo Simon, un delizioso bambino ospite di un orfanatrofio- il God Our Father Centre For Needy Children- e un intero villaggio, grazie all’Associazione che ha creato, “Enzo Foundation”, e alla sua capacità unica di coinvolgere tante persone in una gara di solidarietà e umanità. Il suo progetto ha creato miracoli d’amore e si è allargato ad altre realtà come la Dabaso Pry School, che raccoglie oltre 400 bambini e a famiglie del territorio kenyota.
Il romanzo di Enzo è ricco di fascino e offre numerosi spunti di riflessione. Il primo, è la magia del continente africano. Enzo incontra il suo destino di dedizione ai poveri dell’Africa partendo per una vacanza, amante come è dei viaggi, ma poi il Kenya gli entra a tal punto nel cuore da non potersene staccare più. Quello che gli capita è uno stato d’animo molto studiato, il “mal d’Africa”, un profondo senso di attaccamento, appartenenza e richiamo verso la terra africana, la sua gente, l’aria tersa, i paesaggi e panorami mozzafiato, il cielo ricco di stelle, i colori, gli odori, i suoni, la vegetazione, gli animali selvatici, la savana e il deserto, che fa sentire chi vi si reca “al posto giusto”, sereni e in pace con sé stessi come in nessun’altra parte del mondo o circostanza della vita. La sensazione che descrivono i visitatori occidentali è come quella di un “déjà vu”, il rivivere qualcosa che appartiene al proprio inconscio, anche se si tratta di una realtà agli antipodi dalla propria, perché probabilmente insito nella memoria ancestrale dell’homo sapiens quando si è evoluto dalle sue primitive origini tribali per intraprendere il processo di civilizzazione. La memoria ancestrale sarebbe il ricordo delle nostre origini primordiali, impresso nel nostro codice genetico. Si ritiene ad esempio che i bambini smettano di piangere quando vengono dondolati perché ciò li riporta a quando venivano portati sulle spalle dagli umani primitivi lungo i sentieri preistorici. Il rapporto dell’uomo moderno con l’Africa lo connette dunque al suo destino originario. Anche l’incontro di Enzo col “suo” bambino, Simon, sembra predestinato: i due si scelgono, dal primo sguardo, come se i loro percorsi fossero nati al solo scopo di intrecciarsi in un’alchimia di amore puro e totale. I bambini, più in contatto degli adulti con l’inconscio, sanno essere la chiave per le radici dell’umanità. Khalil Gibran, il poeta libanese, dice: “se cerchi l’infinito, lo troverai nel sorriso di un bambino. E abbi cura di quel sorriso, è la vita del mondo”.
Un altro elemento potente del testo è il ritratto di centinaia di volti, storie, sguardi che Enzo incontra in terra africana. L’autore ci rende partecipi di tante emozioni: il sorriso dei bimbi che regalano il loro cuore per un biscotto, una caramella, una penna, una maglietta; la dignità dei poveri che non hanno niente ma condividono tutto; lo spirito di adattamento di chi porta la sua pesante croce con dolce rassegnazione; l’abominio dell’ingiustizia, della miseria, della fame, della violenza. Il racconto ci restituisce il mito di una vita a contatto della Natura, dove l’indole umana è buona e generosa, prima che la civiltà la corrompa con il suo culto dell’egoismo, del consumismo e del denaro e la brama di sopraffazione di chi è più debole. E il nostro autore, con la squisita delicatezza che gli è propria, tratta anche temi brucianti come le turpi nefandezze del turismo sessuale e il pregiudizio contro gli omosessuali.
Il messaggio bellissimo e coinvolgente di questo testo è il valore della solidarietà. Nel solco delle parole di Madre Teresa, “un oceano è fatto di tante piccolissime gocce”, l’esperienza di Enzo ci fa capire che ogni nostra azione può essere la piccolissima goccia che diventa parte integrante ed essenziale di quell’oceano. Nessun gesto di umanità è mai inutile o superfluo. E poi, Enzo ci insegna, con la sua testimonianza di empatia e compassione, che fare del bene agli altri fa bene anche a se stessi: regala felicità. Enzo ci appare felice di una felicità non superficiale e passeggera, legata al personale benessere e senso di piacere derivante dall’appagamento di un bisogno o desiderio, ma completa e profonda, che origina dal fare stare bene di chi ci circonda. Lo intuì già Alessandro Manzoni, quando scrisse: “si dovrebbe pensare più a fare del bene che a stare bene: e così si finirebbe anche a star meglio”. Ed Enzo ci avvisa, con il suo racconto traboccante di emozioni intense ed autentiche, che ciò che dà senso e spessore al nostro essere umani è spendersi, buttarsi nella mischia, condividere, concedersi, anche al rischio di sporcarsi o farsi male, specchiarsi nella sofferenza degli altri per riconoscere la propria debolezza, il proprio dolore, la propria imperfezione, ma anche la capacità di riscatto e speranza. Solidarietà e volontariato sono un piccolo miracolo: più dai, più, invece di perdere, ti senti ricco. Enzo ci dimostra con le sue associazioni e collaborazioni anche come l’altruismo innesca circoli virtuosi, che trasformano le comunità in organizzazioni sociali coese, morali e armoniose.
Voglio concludere con le parole bellissime di Enzo Nasillo: “Non dobbiamo stare a guardare la sofferenza altrui come se stessimo dietro al vetro di una finestra… al contrario…quella finestra apriamola e lanciamoci con solidarietà, senza riserve e disinteressatamente tra le braccia di chi, logorato dalla sofferenza e dallo sconforto, aspetta impaziente… un atto d’amore”.
Attraverso il dare, Enzo ha saputo superare il sentimento di solitudine che, causa la sua spiccata sensibilità, lo affliggeva prima di trovare la sua dimensione in un dialogo intimo e reale con l’umanità sofferente. E allora il suo viaggio diventa ripartenza e rinnovamento, il suo approdo libertà interiore e catarsi d’amore.
Carlo Alfaro