Positano / Castellammare . 65 anni fa nasceva Annibale Ruccello
Castellammare di Stabia / Positano . Anche se oggi il Teatro , come la cultura, è chiuso dalla politica a causa del Covid, riteniamo che sia ancora più doveroso ricordare grandi figure del teatro e della cultura , sopratutto del nostro territorio. Noi di Positanonews vogliamo andare oltre e non dimenticare mai la cultura che è alla base anche della nostra visione del mondo, quella visione che ci permette di vivere meglio, di non dimenticare, di usare le parole non solo per la cronaca, ma anche per lo spirito e per la conoscenza che non sia legata solo all’effimero del quotidiano.
Ieri 7 febbraio 2021 avrebbe compiuto 65 anni Annibale Ruccello, uno dei principali interpreti della scena teatrale italiana della seconda metà del secolo scorso.
La sua ispirazione originale e innovativa lo ha reso immortale, a dispetto della prematura scomparsa. E le sue opere sono l’emblema di una vocazione che sconfina la tradizione, preservando tuttavia intatte le sue radici e la sue origini orgogliosamente stabiesi
Dalla provincia di Napoli a quella di Salerno, Ruccello è molto vivo nella perla della Costiera amalfitana con il Premio Annibale Ruccello, con il Positano Teatro Festival di Gerardo d’Andrea, patrocinato dal Comune di Positano, che ha creduto nel Teatro, e noi di Positanonews che siamo sempre stati coinvolti in questo evento di risonanza mondiale volevamo ricordarlo, Ruccello non è stato solo uno dei più grandi in Campania ma sicuramente un punto di riferimento del teatro italiano ed europeo che interpreta anche la sofferenza di chi viene messo ai margini, della solitudine, il disagio sociale, che è anche psichico, creato dalla “ferocia” della comunità, quel livore, odio, rancora, oggi ancora più presente nei social network , esemplare, secondo noi, “Le cinque rose di Jennifer”
Emanuela Ferrauto su KlpTeatro ne tratteggia un profilo che riteniamo ci illumini sul personaggio e sul suo teatro.
“Le cinque rose di Jennifer” firmato Arturo Cirillo arriva a Torino: un’occasione per avvicinarsi, al Teatro Gobetti fino al 1° marzo, alla drammaturgia partenopea. Lo spettacolo ha debuttato a Napoli nell’ottobre del 2006, per poi iniziare una lunghissima tournée che lo ha portato a valicare anche i confini nazionali, sbarcando a Lugano e Berlino. Una pièce amata dal pubblico, che spinge a soffermarsi su un autore, Annibale Ruccello, scomparso troppo presto.
Il nuovo stile drammaturgico napoletano nasce negli anni ’80, pur avendo gettato alcune basi già in precedenza. Nel corso della sua storia, la scena partenopea segue una strada originale e personale. Tuttavia, in questo caso, gran parte dell’innovazione che affiora nei lavori di nuovi autori come Ruccello, Moscato e Santanelli pone le sue premesse negli sconvolgimenti culturali, artistici, politici e sociali che investono, tra gli anni ‘60 e ’70, non solo l’area napoletana, ma la società italiana ed europea in genere. A quarant’anni di distanza da Viviani e De Filippo, in Italia arriva lo scompiglio prodotto dalla seconda avanguardia teatrale: il teatro napoletano degli anni ‘80 ne riporta i “postumi”, che si manifestano in un “rinnovamento alla tradizione precedentemente rinnovata”.
Ma cosa succede, in concreto, sulla scena italiana e napoletana di quegli anni? Innanzitutto si assiste ad una rinnovata importanza del testo, nonostante il boom del precedente “teatro immagine”, e il rifiuto avanguardistico della tradizionale struttura testuale e dialogica.
La scrittura e la ritrovata centralità del testo a teatro si affermano in un periodo in cui la lingua italiana si omologa in tutta la penisola attraverso la massiccia diffusione dei linguaggi dei media: tv, radio e cinema. E proprio a Napoli la lingua si trasforma in un prodotto ibrido, formato da un italiano di massa con un forte influsso napoletano: una lingua dai pesanti strascichi dialettali, o un dialetto forzatamente italianizzato, con conseguenti “strafalcioni” grammaticali. Il napoletano, com’è ovvio, appare ben radicato e molto più forte del “nuovo” italiano, di difficile assimilazione. Il risultato di una cultura di massa diffusa violentemente e velocemente attraverso i mass media su una popolazione che non è, in tutte le fasce sociali, pronta a digerire ad uguale velocità questa omologazione è, paradossalmente, una “de-evoluzione”, come la definisce Enrico Fiore.
E proprio Ruccello ama portare sulla scena i suoi studi antropologici, ultimo baluardo di una cultura primigenia e forte a cui ci si può aggrappare per sfuggire al “vortice omologatore”. Nel momento in cui l’omologazione ad una società e ad una cultura nazionale colpisce un’identità profondamente radicata ma in declino, come quella napoletana degli anni ‘80, il risultato è il caos o, meglio, la volontà frettolosa di equipararsi ad un’uniformazione imposta, ma non naturale. Questo binomio tra radici forti, tradizioni e “napoletanità”, unite alla modernità di massa, caratterizza fortemente tutta la produzione ruccelliana.
Annibale Ruccello nasce nel 1956 a Castellammare di Stabia. Castellammare, città amata con quel particolare ardore con cui i campani, e tutta la gente del Sud, amano le proprie origini e le città di provenienza, verrà riproposta, ricordata e citata soprattutto attraverso la lingua, fondamentale in tutti i suoi lavori. Un amore per la città natìa che verrà ricambiato, anche se in ritardo, dalla stessa Castellammare e dai suoi concittadini in occasione del ventennale dalla morte. Ruccello morirà, infatti, prematuramente e tragicamente in un incidente d’auto sulla Roma-Napoli, il 12 settembre 1986.
Il successo di Ruccello è oggi ormai accertato e condiviso dal grande pubblico, anche se, a volte, i suoi testi e il suo modo di fare teatro restano ancora ad un livello di analisi superficiale.
Formatosi prima presso il Teatro del Garage, da cui uscirono anche Enzo Moscato e Mario Martone, poi con la cooperativa Il Carro, evolutasi nell’unione con il Teatro Nuovo, Ruccello scrive tra gli anni ’70 e gli anni ’80 ambientando nella contemporaneità tutte le sue storie. L’unica eccezione è “Ferdinando”, dove preferisce epoche più antiche: il periodo fine ottocentesco della sconfitta delle famiglie borboniche.
Tuttavia l’attualità delle tematiche, spesso scabrose e forti, rimane il tratto comune ad ogni opera.
Anche il teatro di Raffaele Viviani costituisce uno dei primi gradini del consistente substrato culturale di Ruccello, ma non è il solo.
La commistione tra antico e moderno rende unica tutta la cultura partenopea e meridionale in genere: un’unicità cui Ruccello fa riferimento volontariamente, ma anche per una cultura “naturalmente partenopea”, con la quale e nella quale è cresciuto. Elemento fondamentale per capire l’autore sono, in primo luogo, gli approfonditi studi antropologici sulla cultura popolare, partenopea e non, che lo accompagnano a lungo, non solo all’università ma anche sul palcoscenico, affiancando in questa ricerca il suo amico e collaboratore Roberto De Simone.
Ma Ruccello è anche autore d’avanguardia e in lui ritroviamo non solo influssi della cultura napoletana, teatrale e non, ma anche riferimenti, per quanto riguarda il teatro europeo, ad Artaud, a Beckett, al Teatro dell’Assurdo, e a Leo de Berardinis, Carmelo Bene e Mario Martone per quello italiano. Senza dimenticare influssi della letteratura ottocentesca, dal romanzo d’appendice alla narrativa gotica, fino ai romanzi gialli e al cinema americano d’inizio secolo. Quello che, di certo, è sempre presente nel suo teatro è l’angoscia dell’uomo moderno nello scontro con la realtà esterna, improvvisamente cambiata: fobie, delitti, sensualità macabra, ambientazioni fortemente serrate, il tutto frammisto ad una lingua ibrida. E’ questa l’innovazione ruccelliana.
Molte le opere da lui realizzate: la prima, a soli 17 anni, è “Il Rione”, seguita dalle più famose come “Le cinque rose di Jennifer”, “Weekend”, “L’osteria del melograno”, “L’ereditiera”, “L’asino d’oro”, “Notturno di donna con ospiti”, “Anna Cappelli”, “Mamma, piccole tragedie minimali”, fino a “Ferdinando”, spettacolo che lo consacra al grande pubblico e lo lega fortemente, fino alla morte, alla grande Isa Danieli.
“Le cinque rose di Jennifer” debuttò al “NA Babele Theatre” di Napoli nel 1980. Ruccello interpreta Jennifer, il travestito protagonista, secondo una caratteristica tipica della nuova drammaturgia napoletana: gli autori sono anche attori. Lo spettacolo va in scena anche nel 1994, al festival di Todi, per la regista di Enrico Maria Lamanna e con Luca Lionello nella parte di Jennifer. Si tratta, in questo caso, di un’edizione linguisticamente poco vicina all’originale, in quanto nessun attore è napoletano; tuttavia è senz’altro una versione “italianizzata” più fruibile al pubblico del Nord.
Tra le ultime versioni dello spettacolo c’è quella della compagnia di Geppy Gleijeses (2003/2004). Datata 2006/2007 è invece l’ultima versione, diretta e interpretata da Arturo Cirillo con Monica Piseddu. Dello spettacolo esiste anche una versione cinematografica, realizzata da Tommaso Sherman tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, con gli attori Francesco Silvestri e Massimo Abate.
Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello
Arturo Cirillo ne ‘Le cinque rose di Jennifer’
La trama è semplice: Jennifer è un travestito che muore, dentro le quattro pareti della sua piccola casa, per un amore inesistente, per solitudine, ucciso dalla società esterna. Ruccello permette al pubblico di sbirciare il dramma della vita privata dei suoi personaggi dalle serrature, dalle persiane, dalle tende: una quarta parete invisibile che dà il senso figurato all’intento ruccelliano.
Il protagonista vive in un ambiente-ghetto, un quartiere di travestiti relegati in un angolo di città, che parlano e si vestono in un certo modo, ascoltano musica di un certo tipo, a sottolineare e rinforzare questo stato d’isolamento da una società che non condivide il loro essere né la loro vita, e quindi li trascina al buio, così da rimanere nascosti.
La reazione di Jennifer a questo malessere starà proprio nel procurarsi la morte. Attraverso le parole alla radio di Sonia, un altro travestito, si rivelerà il vero nodo della vita di questi personaggi: “No, la televisione non la riesco a sopportare!… Mi sembra come una specie di simbolo, no, di questa mia atroce solitudine… Di questo deserto che è ormai la nostra esistenza… Perché capisci Gloria, questa nostra vita ormai si è ridotta come ad un deserto in cui noi viaggiamo…come degli ospiti… Io non so insomma come spiegarti ma io mi sento come nella plastica, mi sento divisa dagli altri da un muro di cellophane”.
Le cause dell’atto estremo e del malessere psichico affondano nella solitudine, nello stillicidio dei giorni, nell’amore non ricambiato, nella diversità. La morte di Jennifer rappresenta l’insostenibilità della vita ma anche una punizione inflitta a sé, per non essere come gli altri desiderano. Una morte fisica che è presente dall’inizio alla fine dello spettacolo, evocata da una voce alla radio che ripetutamente annuncia un maniaco omicida aggirarsi nel quartiere dei travestiti, uccidendoli nelle loro case in maniera barbara. Jennifer tralascerà spesso questa notizia, cambiando infastidita stazione radiofonica per soffermarsi invece sulla propria morte, che è prima intima e poi fisica. L’attesa dell’amato è l’unico elemento che la manterrà “viva” fino alla fine. Le giornate di Jennifer sono così costruite nella speranza di una telefonata: gli orari, la spesa, il pranzo e la cena, l’impostazione della voce al telefono, il vestiario. Ma tutto il castello fatato, costruito nell’attesa del suo Franco, crollerà pian piano, mostrando palesemente la caduta psichica della persona. Anche le canzoni che provengono dalla radio sottolineano il tema dell’amore impossibile o finito. Proprio come quello, vano, di Jennifer, personaggio capace di far sorridere ma anche di commuovere.
Fondamentale è il ruolo del telefono, mezzo di comunicazione verso il mondo esterno e possibilità di sfogo. Tanto che, nel momento in cui rimarrà muto, anche il cuore di Jennifer sembrerà spegnersi, consapevole dell’incombenza della solitudine. Barricata in casa, si spoglierà degli orpelli del “mestiere” e della sua “maschera”, rifiutando se stessa. Negando la propria solitudine, la vita e l’amore mancato, sceglierà la morte sparandosi in bocca. Ma, ancora una volta, proprio alla fine, fingerà anche su quella: posando sul petto le rose che aveva comprato tornando a casa, chi troverà il corpo intuirà in quei fiori la firma dell’assassino del quartiere. Le rose, quindi, simbolo della società, del violento mondo esterno che non l’accetta e la uccide.
Ruccello si rivela, qui come in altri testi, un grande appassionato di psicanalisi e un ottimo sociologo, e nello studio dei suoi personaggi non manca mai la figura del travestito. L’omosessuale, innalzato ad elemento sacro-profano nella cultura napoletana, che viene invece distrutto nel mondo omologato e moderno.
Se le donne ruccelliane odiano le altre donne in un rapporto edipico continuamente sottolineato, nel caso del travestito l’odio al femminile non si riversa nei confronti di una persona fisica ma contro di sé, perchè rappresentanti l’impossibilità d’essere donne vere, nonostante l’elemento femmineo affiori continuamente nel corpo da uomo. Il concetto di travestitismo emerge non solo come essere qualcosa di diverso da sé, ma come elemento che serve a ribaltare la propria odiata vita.
Molti personaggi ruccelliani, dentro le pareti di casa, si mostrano completamente diversi dall’immagine che propongono all’esterno: sono loro i veri travestiti, che indossano la maschera per mostrarsi secondo il modello imposto dalla società, ma soprattutto per proteggersi da un’omologazione che altrimenti li annienterebbe. L’omosessuale, invece, non si maschera, si mostra così com’è, anche fuori casa, cercando di apparire in tutti i modi “normale”, ma finendo spesso martire del proprio coraggio.
E così accade ne “Le cinque rose di Jennifer”, che rimane uno degli spettacoli più complessi e completi della produzione ruccelliana. Chi ha visto, dal vivo o in filmato, la versione interpretata dallo stesso Ruccello-Jennifer non si accontenterà mai di un “sostituto”.