«Solo l’amore è credibile»: don Pasquale Ercolano, profeta e precursore di papa Francesco
«Solo l’amore è credibile», scriveva Hans Urs von Balthasar, ancor di più quando questo amore rende i sogni realtà. La credibilità dell’amore permette di accogliere l’invito del Risorto per diventarne “sacramento” e testimonianza. Quando le opere esteriori rivelano in modo sicuro l’amore di chi le compie, esse confermano anche, con altrettanta sicurezza, la Verità che le ispira. I presbiteri sono «presi fra gli uomini, e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio» (Presbyterorum Ordinis 3); sono uomini chiamati e consacrati per essere inviati a tutti gli uomini, a servizio dell’azione salvifica della Chiesa come pastori e ministri del Signore. Perciò, solo nello svolgimento della loro specifica missione, partecipando al mistero di Cristo e nell’edificazione della Chiesa, i presbiteri potranno trovare la loro propria identità. Svolgendo il proprio ministero secondo l’esempio di Cristo, il cui alimento era fare la volontà del Padre, don Pasquale ha raggiunto l’unità di vita, cioè la desiderabile unione ed armonia tra la sua vita interiore e gli impegni, tante volte numerosi e dispersivi, che derivavano dal proprio ministero. Vocazione alla santità ed esercizio del ministero si richiamavano e si sostenevano vicendevolmente in lui.
La verità in Cristo si rende credibile in forza dell’amore che la testimonia, questo è quanto lega don Pasquale Ercolano e la Chiesa di Sorrento. In riferimento alla realtà della missione ecclesiale la carità consiste in un insieme di opere, tali da accompagnare l’annunzio del Vangelo. Questo modesto contributo è frutto della riflessione sulla vita del caro don Pasquale Ercolano, espressione feconda di una fede che motiva le ragioni della novità cristiana in una realtà, forse, non molto dissimile da quella del Nazareno. Certo, da dov’è, don Pasquale sa bene che ciò che ha realizzato è solo perché si è reso “argilla” nelle mani del Vasaio divino. È strano come il suo operato mi riporta alla mente figure di grandi sacerdoti del passato. Antonio de Molina (1560-1619), certosino di Burgos, Giovanni de Ribeira (1531-1611), arcivescovo di Valencia, emerge per la sua vita esemplare, la sua figura può essere paragonata a quella del suo grande contemporaneo Carlo Borromeo (1538-1584), e ancora, Giovanni Maria Battista Vianney, curato d’Ars (1786-1859), dichiarato patrono dei parroci da Pio XI nel 1929, Luca Passi (1789-1866) considerato un autentico pioniere dell’Oratorio moderno fu un grande esempio di virtù cristiana. Ma i santi presbiteri sono moltissimi, tutti hanno eccelso nel compimento del loro dovere ministeriale come Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco, Giuseppe Benedetto Cottolengo e Luigi Orione.
Ho avuto modo di sperimentare che la comunità della Cattedrale di Sorrento, realmente è “sacramento” di quella comunione che oggi ci si augura per le Unità Pastorali. La comunione non è mai un dato acquisito una volta per tutte, non è solo il frutto della volontà umana e degli sforzi ottenuti per raggiungerla, ma è soprattutto un “dono” e una “grazia” del Signore risorto e dello Spirito Santo d’Amore. In sintonia con San Paolo VI e i tanti papi che si sono succeduti, don Pasquale Ercolano ha saputo cogliere il frutto del magistero quando con la sua vita ha dimostrato che più che parlare della comunione, occorre farla vedere nella vita e nelle opere dei discepoli di Cristo, in questo caso, della Chiesa particolare che è in Sorrento, pellegrina verso l’Eterno. Se il cristiano è l’uomo della speranza, la comunità cerca di viverla e realizzarla con la grazia e il sostegno dello Spirito, nell’attualità e nella concretezza della sua realtà storico-sociale, anche in questi difficili tempi in cui il coronavirus c’impone una forzata clausura, un intenso periodo di riflessione. L’attuale stato di “crisi” non comporta necessariamente una condanna, ma indica un momento di giudizio, frutto di discernimento e presupposto di una scelta, dalla quale dipende lo sviluppo successivo della realtà critica.
Don Pasquale Ercolano, e lo diciamo con tutto l’affetto e la stima possibili, col suo fare bonario, da “buon padre di famiglia”, incarna i “sapienti” di biblica memoria, pronti alla pace ma che spronano alla riflessione, alla preghiera. La relazione educativa che lo legava al suo popolo è una caratteristica cara alla letteratura sapienziale: «Figlioli, ascoltate l’istruzione di un padre, state attenti a imparare il discernimento; perché io vi do una buona dottrina; non abbandonate il mio insegnamento» (cf. Pr 4,1-2). In questa diversa situazione non basta più pensare alla Chiesa maestra, depositaria di una dottrina immutabile, né è sufficiente richiamarsi alla sua valenza misterica come corpo di Cristo e tempio dello Spirito. Corrisponde meglio alle necessità dell’uomo contemporaneo l’immagine di Chiesa testimoniata da don Pasquale e adoperata da papa Francesco come “ospedale da campo”, come una “mamma inquieta”. Si tratta di un linguaggio che denota una congiuntura d’apprensione e d’emergenza, qual è indotta dal disagio e dal disorientamento dell’uomo postmoderno, senza più utopie che lo sostengono, senza più fiducia nemmeno in se stesso.
Chiunque partecipava a una qualsiasi celebrazione liturgica presieduta da don Pasquale si accorgeva di come la comunità era strettamente connessa con l’unità, dono dello Spirito e sembrava di aver realizzato l’esortazione di San Paolo ai Corinti (1Cor 1,10: «Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e d’intenti»), perché aveva saputo coniugare i verbi della “fragilità e dell’amore” come via caritatis, che è fonte e culmine della vita cristiana di tutti i credenti. In effetti tale realtà di comunione attinge allo stesso mistero trinitario: l’unità di Dio e in Dio e comunione tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, si deve riprodurre e realizzare nella Chiesa, come «icona della Trinità». La Chiesa che sognava don Pasquale è quella che spera papa Francesco, perché l’amore è misericordioso, e la misericordia è intima condivisione del dolore dei sofferenti, dei disprezzati e degli emarginati: costa molto perché spinge ad agire e a portare soccorso ai sofferenti e ai disprezzati; l’amore misericordioso, come emerge dalla parabola del figliol prodigo, è realmente sanante e liberante. La “loro” Chiesa non può esistere senza le parole della povertà, della gioia, del perdono, del Vangelo (come “lieta notizia”), della misericordia. Il buon parroco si faceva interprete di una liturgia che seguiva sine glossa il dettato evangelico, come insegna oggi il magistero di papa Francesco; tentava di fare della cattedrale una Chiesa dalla grande capacità comunicativa perché si serviva di un linguaggio semplice, alla portata di tutti, facilmente traducibile perché parlava al cuore dell’uomo e alle sue istanze. Una Chiesa povera per i poveri, che, nella opulenta Sorrento non voleva dire “guai ai ricchi” ma che sapeva testimoniare la libertà evangelica che nasce dal distacco dal potere e dal denaro. Povertà che non è miseria, bensì cuore radicato in Cristo, vera ricchezza. Povertà che è condivisione dei beni con gli ultimi. Povertà che vuol dire arricchirsi davanti a Dio, ossia guardando ai bisogni dei poveri. Povertà che non è fine a se stessa ma orientata alla comunione, all’agape, alla condivisione
Era bello per don Pasquale proporre a tutti l’ansia missionaria, liturgica, ecclesiale che lo ha consumato di amore per le anime a lui affidate. La libertà evangelica ha fatto di lui un testimone (martire) specifico della carità del Bel Pastore, che ha dato la vita per tutti. Per giungere a questa testimonianza c’è bisogno di una disponibilità pastorale che accetti il rischio di perdere la propria vita per farne canto gradito a Dio. È preghiera il canto del nostro cuore che trova la sua strada per il trono di Dio anche se è impedito dai lamenti e dalle lacrime dei tanti che lo hanno amato, ma non importa: «Nessuno arriva in paradiso con gli occhi asciutti» (T. Adams). E don Pasquale, per confortarci, ci ricorda le parole di madre Teresa: «Ti ho trovato nella gioia, dove ti cerco e spesso ti trovo. Ma sempre ti trovo nella sofferenza. La sofferenza è come il rintocco della campana che chiama la sposa di Dio alla preghiera». Una sofferenza salvifica se spesa per amore di Cristo e i fratelli.
Aniello Clemente