“Moby Prince”, Piano di Sorrento non dimentica.
Livorno – Non ci sono più dubbi la notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 sul traghetto “Moby Prince” si consumò una strage, non una tragedia del mare. Purtroppo, per giungere a tale conclusione, ci sono voluti trent’anni. Quella notte, quando il traghetto della Navarma diretto a Olbia, in Sardegna, entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo, ancorata in rada fuori dal porto di Livorno, morirono 140 delle 141 persone, tra equipaggio e passeggeri, a bordo del Moby Prince, tra le persone che persero la vita desideriamo ricordare il nostro concittadino Arcangelo Picone, 34 anni, Terzo ufficiale. Quella tragica notte si salvò solo un giovane mozzo, Alessio Bertrand. L’incendio fu causato dall’attrito tra le lamiere dei due natanti e dal petrolio che si riversò sul traghetto. Le fiamme non avvolsero immediatamente tutto il Moby Prince. E’ certo dunque che le persone non morirono entro mezz’ora come si disse, ma anche dopo ore a causa anche dei soccorsi che non arrivavano. La convinzione che fossero tutti morti in pochi minuti è stato uno degli errori principali dovuto anche a perizie mediche legali approssimative.Per anni si è parlato di errore umano. Si ipotizzò anche che l’equipaggio fosse stato distratto dalla partita di calcio Juventus-Barcellona. Cosa che il mozzo Bertrand ha sempre negato. Si è tirata in ballo la nebbia che avrebbe impedito a chi era al comando del traghetto di vedere la petroliera, ma quella notte d’aprile il cielo sopra Livorno era sereno, la visibilità ottima e il mare calmo. Non è mai stato chiarito se il Moby Prince fosse fuori rotta, ma di sicuro l’Agip Abruzzo era ancorata, dove non doveva. Per di più i soccorsi, sia pure lenti, si diressero verso la petroliera e non verso la nave passeggeri, anche perché la stessa Agip Abruzzo aveva comunicato per radio l’impatto con una bettolina.Il riconoscimento del traghetto avvenne un’ora, 19 minuti e 59 secondi dal “Mayday”. Perizie sbrigative, testimoni chiave ignorati, interrogatori frettolosi, prove scomparse nel nulla hanno portato a un processo di primo grado in cui sono stati assolti tutti gli imputati di omicidio colposo plurimo perché «il fatto non sussiste». Una sentenza parzialmente riformata in appello che ha stabilito «il non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato», ma perlomeno ha denunciato l’«inchiesta sommaria» da parte della Capitaneria di porto. L’impegno dei familiari delle vittime del Moby Prince riuniti in due associazioni. La prima denominata “140”, raccoglie la maggioranza dei familiari ed è presieduta da Loris Rispoli, che nel rogo ha perso la sorella. La seconda, “10 aprile”, di più recente costituzione, è presieduta da Luchino Chessa, figlio del comandante del traghetto, Ugo Chessa. L’azione strenua e continua dei due gruppi, e il sostegno fattivo dell’allora presidente del Senato Pietro Grasso, ha portato, 25 anni dopo il disastro, a un Commissione d’inchiesta parlamentare, presieduta dal senatore Silvio Lai, che ha stabilito che la collisione non è stata dovuta alla presenza della nebbia e tantomeno alla condotta colposa del comandante del traghetto, dichiarando altresì carenti le indagini della Procura di Livorno e la totale incapacità della Capitaneria di porto di coordinare le operazioni di soccorso con la conseguente morte di alcuni passeggeri molte ore dopo la collisione. Le conclusioni della Commissione d’inchiesta del Senato, pubblicate in quasi cinquecento pagine nel gennaio 2018, hanno quindi smentito, in sostanza, le sentenze di assoluzione emesse nei processi di primo grado e d’appello. Per il momento, in attesa di una possibile inchiesta ter, in questo Paese dai processi infiniti, restano 140 persone arse vive, e nessun colpevole. di Luigi De Rosa