Finché ha vestito lui i panni del Re Leone la partita era sua. Quando quello sguardo è sparito dal suo volto il torneo di Madrid è diventato preda di uno che ha i connotati di una della iene dello stesso film più che del buon sovrano della giungla (6-7 6-4 6-3). Peccato, Matteo. La finale contro Zverev si poteva vincere: a metà del secondo set, anche se il risultato era in parità, lo strapotere caratteriale, tecnico e tattico di cui era protagonista conferivano a Berrettini il titolo di strafavorito per la vittoria. Poi qualcosa è cambiato perché il tennis mica è uno sport mentale, ma no, figuriamoci. Un pensiero ha attraversato la testa di Matteo. Qualcosa più o meno riassumibile così: manca poco, ce l’ho quasi fatta. Arrivano certi pensieri, anche nella testa di chi è top-10 da un paio d’anni e dovrebbe essere avvezzo a evitare certe trappole. Arrivano lo stesso e se non riesci a cacciarli via, depositano nelle tue gambe e nella tua testa un virus che contagia tutto il sistema. E finisce che proprio quando l’avversario è a un passo dalla vittoria, tu sbagli un smash a rimbalzo che è il colpo più semplice che ti sia capitato di dover eseguire in tutta la durissima partita.
Se Berrettini non si fosse fatto infettare da quel pensiero devastante e avesse mantenuto il velaschiano occhio di tigre che aveva rivolto a Zverev e per oltre un’ora, ieri sera avrebbe vinto il primo 1000 della sua carriera. Sicuro. Perché pur con qualche passaggetto a vuoto (era avanti 5-0 nel tiebreak del primo!) il suo era stato fino a quel momento un tennis padronale, forse il migliore mai messo in mostra. Poi, a risultare vincente, è stato un altro tipo di esperienza: quella che possiede chi ha già giocato più partite a quel livello. E che dunque si difende meglio dai pensieracci-virus che invece risultano pericolosissimi per chi quell’abitudine non l’ha ancora. Il virus ha depotenziato la macchina da guerra di Berrettini quel tanto che è bastato per mettere Zverev di non dover fare poi chissà cosa per aggiudicarsi match e torneo: gli è bastato piazzarsi nelle consueta comfort zone tre metri lontano dalla linea di fondo e remare di qui e di là aspettando che l’avversario commettesse un errore. Un fallimento dunque? Partiranno i processi perché due italiani hanno raggiunto due finali 1000 nel giro di un paio di mesi e le hanno perse entrambe? Non scherziamo, please. Matteo è un uomo assai intelligente e già da ora è giusto dirsi certi che la sconfitta di ieri svilupperà quegli anticorpi che gli permetteranno di isolarsi dai pensieri pericolosi. E migliorare ancora. Chi ha un pochino di memoria sa bene che il termine miglioramento non l’abbiamo utilizzato di frequente nei tennisti maschietti degli ultimi vent’anni. Berrettini e gli altri azzurri in scena a Roma migliorano di volta in volta. Zverev ha detto di Matteo: «Serve un kick a oltre duecento l’ora». Una colpo che Matteo ha costruito passo dopo passo, così come ha reso il suo balbuziente rovescio di inizio carriera un colpo solido e spesso risolutivo. Sarà proprio questo senso del miglioramento, che poi in fondo è un’etica del lavoro, che consentirà a Berrettini, da oggi n.9 al mondo, di vincere titoli ad altissimo livello. Già a Roma? Sbilanciamoci: no. Per chi arriva da Madrid le condizioni sono dure (la palla viaggia meno) e Matteo avrà al primi turno uno non facile come Basilashvili.