Sigismondo Nastri: “Quando Amalfi si divideva in ‘A via ‘e vascio e ‘A via ‘e coppa”
Amalfi. Riportiamo l’interessante post pubblicato dal giornalista Sigismondo Nastri sulla sua pagina Facebook: «Ai miei tempi – tenete conto che ho appena compiuto ottantasei anni – Amalfi si divideva in due parti: ‘A via ‘e vascio e ‘A via ‘e coppa. Il confine era al largo Spirito Santo. Oltrepassato l’arco di San Giuseppe – quello che rimaneva di una chiesa, dove le pareti erano ancora affrescate -, iniziava la “viarella” che conduceva alla Cartera ‘ranne (la cartiera grande): uno slargo con tre alberi al centro, ‘o fondo d’ ‘o Cuotto (oggi proprietà Aceto) e l’edificio massiccio della saponera poi demolito (ricordo, sulla facciata, la scritta “Fabbrica saponi Amalfi”), sulla sinistra, la cartiera Amatruda dirimpetto. E il sentiero che dà alla Selva, il bosco fitto a lato del torrente, dove noi andavamo a cercare fragoline, a cogliere bacche di mortella, sòvere pelose (corbezzoli).
Amalfi, ho detto, si divideva in due. Attraversato l’arco di san Giuseppe, il torrente Canneto si apriva alla vista, ricco d’acqua, fiancheggiato sulla destra dalla stradina, nella quale era intenso il via vai di trasportatori e, peggio, trasportatrici: cartacce, balle di carta appena asciugata, ma anche barili di vino, fascine per i panifici, sporte di limoni. Venivano da Scala, Pontone, oppure da Pogerola. Il forno di Gennarino Muoio era all’angolo del palazzo, ai piedi della scalinata (salita Lauro) che porta a san Lorenzo. Sulla sinistra, la ghiacciera di don Nicola Milano, raggiungibile attraverso una passerella di ferro e cemento sul torrente. Sul lato destro della scalinata, la fontana col suo getto continuo d’acqua fresca del Ceraso.
Ricordo ancora gli abitanti di questa salita (spesso conosciuti per i soprannomi, più che per i cognomi): Capo ‘e Fierro (Nastro: non mio parente); Giovanni e Pasquale Torre, il maresciallo Fedele Criscuolo, Michele Sacco, Nannina ‘a Zellosa (sposata Gambardella: donna buona e gentile, così chiamata per via della parrucca. Si era alquanto ingenerosi a quel tempo), Dommìneco ‘o Cafettiere (Amato); Salvatore ‘o Bidello; ‘O Masteciello (Messalino); la famiglia Rosabianca, Matalena ‘a Conciatiane (Amuro). Nei pressi della chiesetta di san Lorenzo, Michele ‘o lattaro (Bottone) e, nella torretta, la famiglia Cipresso, le sorelle Sacco, che facevano ‘e cusetore (cioè le sarte).
Proseguendo invece lungo il fiume, sotto l’arco della Faenza, dove s’incontrava una bella cascata, c’era, sulla destra, l’accesso alle abitazioni del pittoresco complesso edilizio, denominato Quartiere arabo. Un bel ponte, subito dopo l’arco, collegava la stradina alla scalinata per San Basilio e Pogerola (che allora non aveva strada rotabile: ci si poteva andare da qui, e attraversando il bosco cui si accedeva, più avanti, dalla salita dei Morti). Un altro ponticello portava alla cartiera Marino. Ma serviva anche per raggiungere la casa della famiglia di Dommineciello Amendola e la villa Lara, proprietà di quella donna elegante, dall’accento straniero, che noi conoscevamo come la Signora Olandese. A proposito di questa villa c’è da dire una cosa: era stata per un certo tempo in vendita, senza che si trovassero acquirenti. Si diceva che fosse “abitata” dall’aùria, cioè da un fantasma. La gentildonna l’acquistò a un prezzo molto basso. Poi si scoprì che i riflessi di luce che vi si intravedevano di notte, attraverso le finestre, erano causati da uno specchio).
Dopo il Carcere (trasferito qui in seguito all’evasione di due detenuti: prima era sotto l’atrio del duomo), a destra c’era via Resinola (non so dire se ha conservato il nome nella nuova toponomastica). Vi si incontravano, superato il portone del carcere – comune alle abitazioni di Matteo Pistilli, che viveva con la mamma (Maria ‘e fasulo), e di Tatore ‘o lavannaro – , le abitazioni di Vincenzo Falcone, Girolamo ‘o ‘lettricista (Taiani), Gennaro Maiorino, Adolfo Amatruda, proprietario di cartiera, Antonio Taiani (che giocava a calcio nella squadra di Amalfi). E il cancello d’ingresso al giardino di Pasquale Fraulo.
Sotto il carcere, lo scantinato era utilizzato come macello. Noi ragazzi, dalla strada, assistevamo da dietro le grate al cruento spettacolo della macellazione. E ci divertivamo pure, indirizzando alle povere bestie una canzoncina che cominciava con questi versi: “Vaccarella piccirella / ‘o vì’ lloco ‘o sangue tuo”. Erano i tempi duri della guerra e dell’immediato dopoguerra. La carne era riservata, ovviamente, alle famiglie facoltose. Salvo quando si ammazzava un animale piuttosto malandato: in questo caso si trattava di “bassa macellazione” e la vendita avveniva a prezzo scontato. Molti, che soffrivano di anemia, si recavano al macello col bicchiere in mano. Lo riempivano di sangue ancora caldo e lo mandavano giù in un solo sorso.
In cima alla scalinata, di fronte, la casa di masto Ciccio, dove io ho abitato da piccolo. Avevamo anche un giardino ricco di aranci. Poi ci hanno costruito. In alto, il grappolo di case di Mastu Tore (Baldino): vi abitavano, se ricordo bene, Gaetano Rispoli, Salvatore Staiano, e per qualche tempo la famiglia di Bancariello (Pisacane) che si trasferì in seguito alla Madonna del Rosario».