Arte Contemporanea. Intervista alla brava artista Sara Luchetta, in arte Calì, a cura di Maurizio Vitiello.






Intervista di Maurizio Vitiello – Risponde la brava artista Sara Luchetta, in arte Calì.
Sara Luchetta in arte Calì è un’artista contemporanea, nata a Crotone il 12 febbraio 1985, il suo amore per l’arte lo eredita dal padre, anch’egli pittore.
Le prime sperimentazioni di Calì riguardano i ritratti di animali, piante e di parti anatomiche.
Mostra, sin da subito, un particolare attaccamento alla natura considerata musa e maestra indiscussa.
Successivamente, abbandona la figurazione per abbracciare un tipo di astrazione caratterizzata da un marcato senso del movimento, dato dal rapporto fra nette cromie di ribellione e profondità del colore.
La sua ricerca punta a far emergere la complessità della vita moderna con particolare interesse sulla memoria e sul consumismo di una società omologata.
Partecipa a varie collettive di pittura regionali e nazionali, tra le ultime mostre realizzate la personale presso il “Museo del Presente” di Rende, nel 2019.
Significativa l’esperienza a New York, di cui grazie allo studio e alla visione dei grandi maestri prosegue la sua ricerca in forma più matura e diretta, frutto di un lavoro di scavo su una realtà urbana che ha perso memoria della sua storia e della sua umanità.
Vive e lavora tra Cosenza e Scalea, e continua a sperimentare.
D – Puoi segnalare tutto il tuo percorso di studi?
R – Più che percorso di studi mi piace definirlo percorso di consapevolezza, non mi reputo estranea allo studio artistico, ma ho acquisito con il tempo la consapevolezza che l’istruzione comunemente intesa non costituisce l’unico modo di apprendere.
Sin da piccola mostravo di essere portata per il disegno, ma decisi di diventare pittrice a 25 anni, a oggi proseguo i miei studi e la mia ricerca da autodidatta.
D – Puoi raccontare i desideri iniziali e i sentieri lavorativi che avevi intenzione di seguire?
R – Mi hanno sempre fatto riflettere i termini desiderio e lavorativo, soprattutto nel mio lavoro, è un po’ come chiedersi se aspettiamo il senso della terra o il senso della nostra vita.
Ho seguito e sto ancora seguendo in un clima di attesa tutto ciò che mi consente di dire che il giorno successivo non sia uguale al precedente.
Ho iniziato desiderando il senso di tracciabilità, terminerò sicuramente imboccando il sentiero giusto (per molti sbagliato).
Mettiamola così.
D – Quando è iniziata la voglia di “produrre arte”?
R – Più che di inizio, la voglia di fare arte ti sceglie un po’ come il processo creativo, in tenera età percepisci una diversa realtà, ma ti limiti ad osservarla. Con gli anni e gli strumenti forniti cominci a interpretarla facendotene un’idea del tutto personale. Da qui partono quei propulsori di contemporaneità che accompagneranno la tua vita, costanti, voraci, interminabili.
Cos’è la rappresentazione di un’opera se non una visione societaria?
Penso, fortemente, che la storia più che dai vinti sia stata scritta dagli artisti.
D – Quali sono le tue personali da ricordare?
R – Tra le personali che ricordo nitidamente e con affetto c’è quella svoltasi a Rende nel 2018 al Museo del Presente in seguito alla vincita del concorso “Geni comuni”, a cura di Luigi Le Piane, Mariateresa Buccieri e Roberto Sottile, con il quale, successivamente, ho avuto modo di collaborare in sintonia e realizzare la personale.
La mostra è arrivata dopo il mio rientro da New York, una città incredibile e meravigliosamente intensa in cui hai modo di percepire la velocità di avanzamento di tutto.
D – Puoi precisare i temi e i motivi di queste personali?
R – La personale si chiamò “White Wall” basata sull’azzeramento della memoria.
Penso fortemente si stia azzerando la profondità storica per ridurre la realtà a fittizio surrogato di un vasto immaginario pubblicitario.
White Wall è stato il viaggio nel viaggio.
Ho focalizzato l’attenzione sull’importanza dell’esistenzialità dell’opera d’arte. L’artista a oggi, al tempo del colera consumistico delle masse, del narcisismo patologico e della regressione intellettuale diviene muro tracciato, ma non tracciabile.
Sceglie consapevolmente di dare verità.
D – Dentro c’è la tua percezione del mondo, forse, ma quanto e perché?
R – dentro c’è la mia percezione della vita che ancora prima dell’opera ci dà capacità di dolore, sofferenza, spesso inadattabilità e ricerca faticosa.
Non esistono opere prive di azione educativa, dobbiamo porci al servizio della libertà.
Il quanto e il perché lo stabilirà la storia, a me piace pensare che nonostante l’uomo sia artefice di una società cannibale, gli sia rimasta ancora dell’anima e all’artista il buonsenso di non sopravvivere alla mercificazione del suo pensiero in una società in cui siamo condannati a vivere in un’incertezza permanente. Un ristagno che ha intaccato tutti i campi dal socio politico all’arte.
Ho la sensazione che il risultato di una libertà totale e incontrollata ha fatto approdare al messaggio privo di messaggio.
Raccontare diventa quindi un atto di coraggio.
D – Ora, puoi specificare, segnalare e motivare la gestazione e l’esito delle esposizioni, tra collettive e rassegne importanti, a cui hai partecipato?
R – Non saprei rispondere a questa domanda, perché spesso fanno parte di un filo continuo, non distinte e singolarmente motivabili.
D – L’Italia è sorgiva per gli artisti dei vari segmenti? La Calabria, la Puglia, il Sud, la “vetrina ombelicale” milanese cosa offrono adesso?
R – L’Italia è da un po’ di tempo in una fase di abbandono e non investimento basti pensare all’assenza di artisti italiani fra gli invitati alla Shangai Biennale e alla Triennale del New Museum.
Questo fa emergere il fallimento dell’arte contemporanea nel nostro paese.
Alla Biennale di Venezia è difficile trovarvi artisti italiani invitati alla mostra internazionale (sempre per quel banale provincialismo nostrano del “politically correct”) a differenza delle due citate prima che portano dall’interno 10/40 artisti come media.
Per quanto riguarda La Calabria e il Sud in genere il problema non deriva dalla mancanza di artisti, ma di infrastrutture che rendono complicate anche la più semplice delle problematiche.
Qui c’è questa radicata infatuazione per l’abbandono, le gallerie non sono incentivate, spesso i musei o i teatri vengono usati come riunioni condominiali di politicanti.
Peccato, poiché la nostra storia narra esattamente il contrario, credo che il problema principale sia stato questo; l’essersi adagiati in forma sterile a un passato importante.
Guardare solo indietro non porta mai all’avanti.
Milano artisticamente è ancora una porta sull’Europa, ci sono realtà che resistono, ma molti galleristi sono in sofferenza e usciti dalla pandemia si rischia che non ci sia più stimolo, né più luoghi per nuove creazioni, a meno che non cominciamo a curare questa malattia, che affligge la nostra cultura con il buonsenso di artisti, di addetti ai lavori, di investitori.
D – Quali piste di maestri hai seguito?
R – Non puoi non essere stata battezzata e non essere stata “perseguitata” dai grandi maestri.
Si attinge sempre dal passato e con attenta ciclicità ripetuta in forma ossessiva si cerca di portare avanti il testimone, quello di raccontare il proprio tempo.
Il fascino di questi ultimi è stata la loro contemporaneità schiacciante divenuta classicità solo in seguito.
Da Leonardo a Michelangelo passando per Gentileschi, Goya, Rubens, Monet approdo in Tapiè, Dubuffet nel quale nel suo importante testo teorico “prospectus aux amateurs de tout genre”, pubblicato nel ’46, mi trovo in una nuova coscienza del reale mosso dalle avanguardie anche con la caduta di illusioni di cultura idealistica.
Con questa idea di riscatto nasce la mia propensione all’informale e all’astrattismo quel richiamo repentino che mi riporta all’origine dell’atto formativo e linguistico, spesso problematico e contraddittorio, impuro e informe.
Al Moma e al Metropolitan di New York ho avuto modo di trovarmi nei silenzi di luce di Mark Rothko, nelle composizioni di Kandinskij, nel dripping di Pollock e capire quanto il richiamo del colore fosse un atto naturale di coscienza morale. Anche in Italia non siamo stati da meno in quegli anni controversi, basti pensare a Burri, Fontana e Vedova.
Potremmo parlare dei grandi Maestri per ore, ma concludo dicendo di seguire quelli che mi hanno fatto capire che la bellezza fosse un atto dovuto.
D – Mi puoi indicare gli artisti bravi che hai conosciuto e con cui hai operato, eventualmente “a due mani”?
R – L’artista nel suo processo creativo è individualista, non credo molto nelle opere a due o più mani contrariamente dalle collaborazioni e dalle vedute intellettuali, che, invece, reputo necessarie tra creativi.
Sono arrivata alla conclusione che i grandi artisti collaborano sempre anche in forma tacita, i piccoli si fanno guerra.
In Calabria, ad esempio, suggerirei di apprezzare per continuità e perseveranza artisti che non hanno mai smesso di interpretare l’arte, ognuno a suo modo di veduta e pensiero critico quali Francomà, Vincenzo Trapasso, Adele Ceraudo, Alfredo Granata, Maria Credidio, ma ci sono anche molti altri artisti che come me stanno cercando di dare credibilità al proprio territorio come Domenico Grosso, Giuseppe Negro, Benedetto Ferraro, Giuseppe Barillaro.
D – Pensi di avere una visibilità congrua?
R – Non so, credo di si, ma non è cosi semplice.
Gravita ancora intorno al mondo dell’arte un’isola maschilista.
Le donne, nonostante una parità formale che ha eliminato i monoliti istituzionali, faticano a ottenere visibilità.
Basti pensare che in ambito accademico l’82% delle cattedre di studi artistici è occupato da uomini.
D – Quanti “addetti ai lavori” ti seguono?
R – Non so quantificarli, sicuramente tutti quelli che mi hanno proposto una collaborazione essendo questo uno dei parametri di interesse, suppongo ancora a oggi valido.
D – Quali linee operative pensi di tracciare nell’immediato futuro?
R – Produrre.
D – Pensi che sia difficile riuscire a penetrare le frontiere dell’arte? Quanti, secondo te, riescono a saper “leggere” l’arte contemporanea e a districarsi tra le “mistificazioni” e le “provocazioni”?
R – Molti (artisti stessi, addetti ai lavori, fruitori) hanno difficoltà a leggere l’arte contemporanea divenuta ancora più complicata nel momento in cui tutto diventa arte e la corsa al mercato prende il sopravvento sul peso intellettuale. L’arte contemporanea corrisponde al pure interrogare dal quale scaturisce un risveglio improvviso della coscienza dello spettatore.
L’opera non va più solo guardata, ma va letta e chi si approccia a tale lettura deve capire che un pensiero non sempre diventa figura.
Basti pensare a Duchamp che nella sua provocazione cambia la funzione ordinaria da sempre attribuita a un oggetto o a Marina Abramović, un’icona dell’arte contemporanea, le cui performances hanno cambiato la storia.
È chiaro che oggi per capire le opere d’arte contemporanea bisogna entrare nel loro processo costitutivo e chiedersi come funzionano senza approssimazione.
D – I “social” t’appoggiano, ne fai uso quotidiano?
R – Con i “social” riesco ad avere un buon riscontro, permettono all’ artista e alle opere di poter confrontarsi con più realtà internazionali.
Ovviamente, non sono sostitutivi alla realtà, un’opera non può essere ridotta a dei pixel, necessita di essere esposta e goduta.
D – Con chi ti farebbe piacere collaborare tra critico, artista, art-promoter per metter su una mostra o una rassegna essa di artisti collimanti con la tua ultima produzione?
R – Collaborerei con chiunque abbia come obiettivo quello di portare avanti la veridicità dell’arte priva di criteri quantitativi, ma qualitativi legata alla capacità e sensibilità di lettura non solo del pezzo, ma anche dell’artista stesso.
D – Perché il pubblico dovrebbe ricordarsi dei tuoi impegni artistici?
R – Il pubblico dovrebbe ricordarsi dell’arte contemporanea in genere, anziché continuare a coltivare questo culto del vuoto.
Per quanto riguarda i miei lavori si basano sull’interrogazione altrui, li ricorderanno ogni qual volta vorranno guardarsi dentro.
D – Pensi che sia giusto avvicinare i giovani e presentare l’arte in ambito scolastico, accademico, universitario e con quali metodi educativi esemplari?
R – Credo sia fondamentale avvicinare i giovani alla cultura in genere, hanno perso l’individualità ormai si comportano allo stesso modo, non vi è distinzione di ceto o appartenenza politica.
In questo caos l’arte ci permette di acquisire una conoscenza completa così da evitare che i fatti e misfatti della storia si ripetano.
E’ un passaggio di testimone generazionale, che migliora la nostra condizione di umanità.
Dovrebbe essere materia assidua in qualsiasi ambito, poiché è uno specchio sulla nostra condizione esistenziale.
Bisogna cominciare dai bambini coltivare e nutrire questo istinto sin dalla tenera età, mi piace pensare all’arte nel quotidiano.
D – Prossime mosse, a Roma, Londra, Parigi, New York …?
R – Ho un po’ di progetti e collaborazioni che mi vedranno fuori regione, purtroppo rallentate dalla situazione pandemica, ma quello che mi preme attualmente è continuare la mia ricerca
D – Che futuro prevedi nel post-Covid-19?
R – Prevedo in un’umanità che scivola sempre più verso il baratro un ritorno alla cultura, alla bellezza a quella sensazione perduta di consapevolezza esistenziale che solo l’arte è in grado di restituire.
Dopo questo periodo che sta mettendo alla prova un po’ tutti, si necessita un’inversione di manovra della fruizione del pezzo d’arte, considerando le “arti tecnologiche“ semplicemente un’estensione di comunicabilità di quest’ultima e non sostitutiva. L’arte è qualcosa di fondamentale per le persone e per la comunità e la società nel suo processo evolutivo non può farne a meno.