2 Giugno Festa della Repubblica, ma la Campania e il Sud votarono monarchia. Ecco perchè

2 Giugno Festa della Repubblica, ma la Campania e il Sud votarono monarchia. Ecco perchè
Un voto che divise ulteriormente l’ Italia, per quanto ci riguarda tutta la Campania, e anche la Costiera Amalfitana e Penisola Sorrentina, da Amalfi a Sorrento di cui ci occupiamo, votarono Monarchia. Riportiamo due articoli interessanti sulla vicenda :
I 75 anni di una Repubblica che Napoli non scelse
di Guido D’Agostino su Repubblica del 2 giugno 2022
Il 2 Giugno, nascita della Repubblica in Italia ( e fine del Regno precedente), a seguito di referendum popolare – accoppiato alla tornata elettorale politica per l’elezione dell’Assemblea costituente – svoltosi appunto in quel secondo giorno del mese finale della primavera del 1946, dunque 75 anni fa.
È stata un’occasione straordinaria, un nuovo inizio, l’avvio di una vera e diversa storia dopo il fascismo, dopo la guerra, con l’incombente e assillante impegno di risorgere, di uscire dal tunnel e tornare a vivere, inoltrandosi per un territorio non ancora esplorato dal quale ci si aspettava tanto, ma davvero tanto e comunque di ” altro” da quanto si era fino a quel momento vissuto, desiderando che cambiasse, si trasformasse in maniera radicale.
In compagnia solidale, questa volta e politicamente per la prima volta, con “l’altra metà del cielo”, cioè con le donne che vedevano, sempre a partire da quel 2 giugno del quale stiamo parlando, riconosciuto il loro diritto a partecipare, da cittadine militanti, attraverso il voto, alla vita e all’attività politica e istituzionale.
Conquiste non certo da poco, se si pensa alla liquidazione della monarchia, complice e promotrice del fascismo; ai presupposti su cui si andava costruendo il nuovo assetto repubblicano, con la rimessa in auge dei partiti e con il sigillo inderogabile dell’antifascismo, quale connotato esterno formale ma più ancora come interno, convinto e condiviso segno, e segnale, identitario del Paese e della comunità nazionale.
Il quadro meridionale
Questo per richiamare e delineare il quadro nazionale, col referendum vinto, con oltre due milioni di scarto, dal voto repubblicano, diffuso però nel paese in maniera varia e contrapposta, considerato che da Roma in giù, in pratica nell’intero Mezzogiorno continentale (che ci riguarda più da vicino) e nell’epicentro napoletano è avvenuto l’esatto contrario, con circa l’ 80 per cento dei suffragi andati alla monarchia e il venti per cento all’opzione repubblicana.
È vero anche, e lo richiamo e rilevo da subito, che per l’insigne meridionalista Manlio Rossi Doria, s’è trattato proprio, a proposito del voto meridionale per la Repubblica, del contributo quantitativo e qualitativo, necessario e indispensabile alla vittoria finale. Ma tant’è e da allora, e fino ai nostri giorni, ci si interroga sui ” perché” di quel ” come”, sui motivi e sulle prospettive connesse e alla base di quella scelta.
Insomma, un caso Napoli ( e un caso Sud) con una ulteriore espressione e variazione sul tema, di qualcosa riapparso tante volte, prima del 1946 ma anche dopo, che si presenta e ripresenta nei momenti cruciali della storia nazionale, quelli nei quali, come avvertiva proprio in quell’anno Federico Chabod, l’Italia faceva riemergere la natura del proprio processi di formazione unitaria partito in effetti da ” pezzi” diversi e distanti che si erano, o erano stati, assemblati, messi insieme (“Italiani per forza”, come nel titolo del recente libro di Dino Messina?).
La situazione a Napoli
Concentriamoci su Napoli e sul tragitto compiuto dalla città dal 1943 al 1946, dalla Libertà ( conquistata con le Quattro Giornate), alla Liberazione ( aprile- maggio 1945, epilogo vittorioso della Resistenza e della lotta armata partigiana), e alla Repubblica, nell’anno successivo, come prologo e annunzio del varo della Carta costituzionale del 1948. Un percorso straordinario, per celerità e per l’altezza della posta in gioco e per le volontà messe in campo. Ma va egualmente messo in conto come dopo la prova eccezionale di orgoglio civile e politico racchiusa nelle Quattro Giornate di fine settembre 1943, la nostra città ha vissuto l’ambiguo clima della ” pace dimezzata”, il rapporto tutt’altro che lineare e stabilizzante con le truppe alleate (soprattutto la presenza americana apportatrice di novità e fermenti, non tutto né sempre ” in positivo” e soprattutto non destinato a cambiare durevolmente forme e destino di vita della comunità locale, uscita letteralmente a pezzi da tre anni di guerra micidiale).
Nel corso del 1944 e della prima parte dell’anno successivo, riprendono in sostanza il sopravvento stati d’animo e attitudini mentali ispirati dall’insicurezza, dal bisogno di ordine e protezione. Ne fa le spese il rapporto con la politica e le istituzioni sul piano locale, nonostante quanto si sforzino di fare le amministrazioni comunali guidate da sindaci di provata onestà e indiscutibile valore (quali Ingrosso e ancor più Fermariello), nonché quel che cerca di proporre e realizzare il governo nazionale retto dall’azionista ed ex-partigiano Ferruccio Parri.
Ha ragione quindi il prefetto Selvaggi che in quegli anni, più volte, informa il governo centrale circa lo ” spirito pubblico” che si è formato e che caratterizza la situazione napoletana. Così accanto alle precarie condizioni di vita materiale, egli vede, e ne riferisce, la montante disgregazione sociale, il dilagare della corruzione, la piaga della prostituzione per bisogno, il disastro del mercato nero, l’alterazione dei tradizionali profili di classi e ceti. Insomma, una profonda sovversione morale e civile a cui non riesce a porre alcun rimedio una politica verso la quale, anzi, cresce ogni giorno di più la sfiducia, peggio, il più radicale disinteresse quando non si attivi il rancore e l’addebito di ogni colpa e responsabilità.
È questo il quadro nel quale via via ci si avvicina all’appuntamento elettorale del 2 giugno 1946, 75 anni fa; come è stato detto da più di uno storico interessato al tema, la fase in cui il “vento del Sud” si trasforma nel ” vento di destra”, come puntualmente si riflette nel voto dei napoletani, giunto al termine di una campagna elettorale aspra e non priva di episodi di sopraffazione e di violenza.
Il vento di destra
Uniforme l’orientamento in tutti e 27 i quartieri cittadini, con oscillazioni non particolarmente significative tra quelli “borghesi” e quelli popolari e ultrapopolari. Con le eccezioni dei quartieri della cintura operaia in cui la Repubblica ottiene consensi oltre il 30 e il 40 per cento. Stravince il voto monarchico ( quasi l’ 80 per cento) e d’altro canto il voto politico, nello stesso giorno, fa registrare un 20 per cento a favore della sinistra, valore corrispondente ai suffragi conseguiti dall’opzione repubblicana nel referendum. Peggio ancora il risultato del voto amministrativo alcuni mesi più tardi, con una astensione che supera il 50 per cento (e i voti non validi al 10 per cento), alla sinistra, poco più del 30 per cento e voto ” di dispetto”, o punizione, nei confronti della Dc, “rea” di collaborare con le forze di sinistra nel governo nazionale!
Ma comunque la Repubblica è nata, per tutti e con tutti. E tutti hanno finito per accettarla.
L’autore di questo articolo è presidente dell’Istituto campano per la storia della Resistenza “Vera Lombardi”

Perchè il Sud votò in massa per la Monarchia nel 1946 di Angelo Forgione
Sono trascorsi più di sessant’anni dal referendum istituzionale del Giugno 1946 e ancora l’Italia discute dell’altissima maggioranza monarchica dei meridionali in un dibattito opaco che interessa storici, economisti e sociologi, spesso senza analizzare a fondo quel periodo al quale bisogna tornare per capire i due motivi di quel coro meridionale apparentemente incomprensibile.
Prima ragione fu il retaggio storico del Sud, storicamente legato alla forma monarchica e poco incline a quella repubblicana. Nella povertà acuita dalla precoce liberazione del Sud e nella totale incertezza sulle sorti del Paese, la continuità dell’istituzione monarchica sembrò per tantissimi una soluzione più opportuna e rassicurante, anche perché il Meridione era rimasto fuori dalla guerra di liberazione combattuta nelle regioni del Centro-Nord. Del resto, a pochi interessava la storia per niente scintillante del Regno d’Italia in un momento di grandi stenti in cui non esistevano storiografia e pubblicistica diverse da quelle “ufficiali” che raccontavano i buoni Savoia (e i cattivi Borbone).
Secondo fattore, non poco incisivo sulla maggioranza bulgara dei monarchici meridionali, fu rappresentato dalle manipolazioni politiche del ministro dell’Interno, il repubblicano piemontese Giuseppe Romita, che orchestrò le prime elezioni amministrative dopo la dittatura fascista in modo da mettere in secondo piano l’espressione degli elettori del Sud Italia. Il clima politico di quei mesi lo espresse il socialista Pietro Nenni: «O la repubblica o il caos». Liberata l’Italia dal Nazifascismo e dalla furia distruttiva anglo-americana, bisognava liberarsi anche dei Savoia. E allora le consultazioni amministrative furono scientificamente distribuite in due momenti: il Nord in primavera e il Sud in autunno, a distanza di mesi, in modo da piazzarvi in mezzo proprio il più importante referendum del 2 e 3 giugno per scegliere tra la monarchia e la repubblica. Furono mandate molto presto al voto locale le città di tendenza repubblicana, Milano compresa, la più filo-repubblicana, quella che era stata la sede in Alta Italia del Comitato di Liberazione Nazionale e che, a guerra finita, risultava a tutti quale primaria roccaforte del nuovo corso politico repubblicano. I milanesi votarono il 7 aprile, mentre si fecero votare dopo il referendum i napoletani, il 10 di novembre, sette mesi più tardi, come un po’ tutte le città del Sud, tendenzialmente filo-monarchiche, evitando così che un risultato anti-repubblicano potesse condizionare altre città nella consultazione sull’istituzione statale.
I meridionali, quindi, si videro pure aggirati ed estromessi dalle scelte politiche, tutte ormai dominate dal “vento del Nord”, definizione coniata in quei frangenti per definire la spinta politica settentrionale alla destituzione della monarchia e alla svolta democratica, accusando la strategia del ministro Romita, da lui stesso spiegata in seguito: mettere in minoranza il Sud, storicamente legato alla forma monarchica, facendo votare immediatamente il Nord filo-repubblicano alle amministrative prima che si votasse per il referendum, il quale si sarebbe svolto con i primi risultati, prevedibilmente pro-repubblica, delle elezioni amministrative nel Settentrione.
“Fu questo – scrisse di suo pugno Romita nella pubblicazione Dalla monarchia alla repubblica del 1959 – il cardine della mia politica per portare in Italia la Repubblica. […]. Nell’orientarmi, quindi, per la scelta dei comuni dove si doveva votare nella prima tornata, verso quelli a prevedibile maggioranza repubblicana, ho la coscienza di non aver commesso alcuna scorrettezza, di aver svolto soltanto quel minimo di politica di parte, che ad ogni ministro deve essere consentita”.
Il referendum spazzò via, dopo ottantacinque anni di regno indegno, la Corona sabauda, colpevole negli ultimi venti di aver dato il potere al Fascismo e poi di aver abbandonato la nave fuggendo dalla Capitale. A pesare di più fu proprio la volontà delle regioni settentrionali: in tutte le province a nord di Roma, tranne Cuneo e Padova, prevalsero le preferenze per la repubblica. Nelle restanti a sud, tranne Latina e Trapani, vinsero quelle per la monarchia. Ancora una conferma di quanto fosse nettamente diviso il Paese. Il Mezzogiorno si disse monarchico, ma in realtà non tutti i votanti credevano veramente nel Re come rappresentante unitario della nazione. Per alcuni, più che di effettiva affezione ai Savoia, si trattò di dare uno schiaffo alla classe politica settentrionalista che marginalizzava il Sud da ormai ottant’anni e di un’espressione di protesta contro un Nord guidato da Milano che influenzava le scelte e decideva le sorti dell’Italia.
Altissime percentuali di voti per la monarchia si registrarono nelle circoscrizioni di Lecce, Brindisi e Taranto. Brindisi era stata la capitale del Regno del Sud e da lì Vittorio Emanuele III aveva cercato di ricomporre l’ormai sfaldato esercito italiano, partendo dalle divisioni militari dislocate a difesa delle basi navali nella provincia brindisina e in quella tarantina.
Altro exploit monarchico vi fu nella grande Napoli, peraltro la città natale di Vittorio Emanuele III e quella in cui, da principi ereditari, avevano vissuto per anni il Re Umberto II e la sua Maria José; città le cui drammatiche condizioni sociali, originate dalle distruzioni dei bombardamenti, e la lotta per la sopravvivenza del popolo, costretto a badare a se stesso dopo le “Quattro giornate” dell’autunno ’43, non metteva di certo i napoletani in condizione di interessarsi profondamente alla politica. A risultati accertati, tra mille polemiche di brogli, il fronte monarchico di Napoli insorse in via Medina, dove si trovava la sede del Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti. Sotto ordine giunto da Roma dallo stesso Romita, la polizia sparò ad altezza d’uomo. In nove persero la vita e undici tra i circa centocinquanta feriti morirono in agonia, senza processo e giustizia. Per placare gli animi e “risarcire” la città e il Sud, il 28 giugno l’Assemblea Costituente mise a Capo dello Stato un monarchico napoletano, Enrico De Nicola, eletto al primo scrutinio con circa il settantacinque per cento dei suffragi dopo aver votato egli stesso a favore della monarchia, convinto dalla necessità di assicurare un trapasso meno traumatico possibile al nuovo sistema e di proporre ai filo-monarchici meridionali una figura capace di riscuoterne il gradimento.