Eugenio Mazzarella domani a Sorrento , una riflessione sull’astensione al voto dei poveri che riporta la voto censuario

Eugenio Mazzarella domani a Sorrento alle 17 per un interessante convegno, fra i tanti , tutti di alto livello, fatti da Luciano Russo, che vi invitiamo a seguire oggi alle 17 al Conca Park. La Conferenza organizzata dall’Istituto di Cultura Torquato Tasso Sorrento, presidente Luciano Russo con moderatrice la giornalista Silvana Gargiulo . Nietzsche critico della cultura e diagnosta del nichilismo , davvero un tema filosofico di grande interesse , per cui consigliamo a tutti gli studenti di seguire questa e altre conferenze, torneranno davvero utili per la formazione culturale. Fra l’altro, come molti sanno, Nietzsche è stato anche a Sorrento, un “ritorno” culturale.

Mazzarella è un filosofo, politico e poeta italiano. Professore ordinario di filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, è tra i principali interpreti italiani del pensiero di Martin Heidegger , ma è anche un grande pensatore politico illuminante, infatti leggendo in nottata alcuni suoi scritti abbiamo notato e apprezzato questo articolo apparso sul quotidiano cattolico Avvenire che ben illustra questo momento storico.
La recente analisi di Tecnè Italia della sempre più massiccia astensione elettorale, e della sua struttura interna, ha confermato un dato ormai acclarato: la diserzione dal voto dei ceti più disagiati, sempre più convinti che la politica non li rappresenti e, quindi, dell’inutilità della partecipazione elettorale. «Le classi più disagiate cercano risposte che non trovano in nessun partito e percepiscono che spesso il loro voto è inutile. Dunque, se ne stanno a casa », è l’efficace sintesi dell’Istituto di ricerche. In sostanza, dal campione esaminato (le ultime amministrative), emerge che solo il 28% degli elettori a basso reddito è andato al seggio. Le percentuali salgono per la classe a reddito medio (63%) e soprattutto per i redditi alti (79%).
È una forma di ritorno al voto censuario, per censo, degli inizi notabilari del diritto al voto tra Ottocento e Novecento. In soldoni, da tempo tanti italiani si sono convinti che andare a votare conta poco, anche perché – come ha ricordato Francesco Riccardi su questo giornale lo scorso 5 agosto – non sono davvero i cittadini e le cittadine a scegliere i loro rappresentanti. Da qui la galoppante disaffezione alle urne. Ma la cosa drammatica, sul terreno democratico, è che questa disaffezione alle urne è in grandissima parte frutto della rinuncia al voto di grandi masse popolari, i cui sentimenti e i cui interessi restano in gioco, anche pericolosamente, nelle tensioni populiste del corpo sociale.
Considerato quello che ci ha fatto vedere questa legislatura, poteva sembrare che fossero maturi i tempi per un ritorno ponderato al proporzionale con preferenza per ricucire un rapporto con gli elettori. Cioè, a un sistema grazie al quale l’elettore – dopo la prima cernita fatta dai partiti nell’offerta dei candidati – tornasse a essere significativo nelle urne. Consentendo così di risalire la china della partecipazione. Una scelta politica ormai indifferibile, e che sarebbe stata doverosa in una legislatura che già paga il prezzo di una brusca e irriflessiva riduzione della rappresentanza parlamentare. C’è stato, però, e resta un ‘ma’, grosso come una casa, che va ancora volta denunciato: il disinteresse del ceto politico, al di là delle lacrime di coccodrillo sull’astensione versate a ogni chiusura dei seggi soprattutto da parte dei perdenti, a modificare le cose. Il ceto politico in servizio – lo ha dimostrato ancora una volta – non ha alcun interesse, con le liste bloccate, a far aumentare la partecipazione. E questo per un motivo semplice: perché con la metà dei voti assoluti di trent’anni fa, per il gioco delle percentuali, paghi uno e prendi due, ottiene lo stesso numero di seggi, per altro predeterminando con i listini l’eleggibilità dei canditati: paradossalmente sono i capi dei partiti politici a esprimere chi preferiscono sia eletto in base alle percentuali raggiunte; la preferenza è loro, non dell’elettore.
Non solo: riducendosi la partecipazione al voto, le segreterie dei partiti governano più felicemente la decrescita infelice della partecipazione democratica, perché incidono di più sull’esito del voto le filiere strutturate di appartenenza clientelare-amministrativa. Tant’è che appena alle urne si presenta un’imprevista ondata d’opinione non controllabile (chiamasi ‘populismo’, anche se la sua genesi sono bisogni popolari non rappresentati adeguatamente) il sistema così tarato nelle sue modalità di funzionamento quasi in automatico la normalizza in base allo schema suddetto, facendo entrare nel barattolo sempre più piccolo la quantità e la qualità di tonno desiderata. Ad aggravare questa autotutela di ceto politico che si affida alla bassa partecipazione al voto, si aggiunge che la partecipazione è censuaria. Motivo per cui il voto che effettivamente si cerca è quello che ‘rappresenta’ chi va a votare, ma non quello che rappresenti l’interesse generale del Paese.
È ora che questo sconcio democratico finisca, e che ci si risparmino le lacrime di coccodrillo. Che almeno su questo le forze politiche che si presentano al voto a settembre prendano un impegno solenne.