23 undici 1980: fragilità e coraggio
È una tranquilla domenica di novembre l’aria è stranamente mite, inusuale per questo periodo: siamo al 23; verso l’imbrunire, l’aria si è all’improvviso fermata, gravida di terrore, sembrava che tremasse perché presaga di quello che stava accadendo. Sono le 19,35 circa, come nel Bolero di Ravel, un susseguirsi di suoni sconosciuti preannuncia il boato che squarcia buona parte del Meridione. Un mi-nuto e mezzo, tanto durò il terremoto. Provate a fermarvi e contate 90 secondi e mentre lo fate pen-sate che il mondo vi crolla addosso, come sotto un bombardamento. Fra Campania, Basilicata e Pu-glia 37 comuni furono completamente rasi al suolo e ben 506 subirono danni di varia entità. Purtrop-po io c’ero, anzi quel terremoto cambiò la mia vita perché da allora mi trasferii in Penisola Sorrentina per dare una mano alla ricostruzione essendo anche geometra. A distanza di anni, da teologo, desi-dererei “dare una mano” a capire e a non dimenticare.
Leggere il Terremoto come “fine del mondo” significa non constatare un fallimento, ma scoprire pa-radossalmente la vicinanza di Dio, anche se una tale vicinanza non è mai estranea al dubbio, all’interrogativo, alla perplessità, alla lotta, alla morte. D’altronde K. Gibran ce lo ricorda: «Chi di noi presta ascolto all’inno del ruscello quando parla la tempesta?», e si alza forte la domanda: “A che serve il dolore?”. Stranamente, è il dolore che ci fa levare la voce, il grido a chiamare l’aiuto di Dio; è il dolore che ci fa distaccare dalla terra. Ecco la grande missione del dolore nella vita dell’uomo. Il terremoto ci dice: “Attenti! Finché sulla terra si è felici, molto raramente si cerca Dio”. Ecco la gran-de lezione e missione del dolore, della tribolazione, della sofferenza, della croce di questa vita. Il mio amico Luigi Martorelli, e tanti “carottesi” mi chiederanno dov’era Dio in quel momento, dove la prova della sua vicinanza. Cari amici la sfida della tenerezza di Dio inizia dal “perché” del dolore e della morte, per narrarci una storia che riguarda ognuno di noi. Aprirsi a questa dimensione e indaga-re fino a scorgere le radici della sofferenza significa ritornare a parlare della speranza futura, che è l’unico impegno possibile per ridare alla morte il suo posto nella vita, e per dare alla vita la verità del suo percorso. Ed ecco che quelle macerie di via Cassano, di via S. Michele, del “cratere” dell’avellinese ci ricordano le parole di Cicerone: «Cum tacent, clamant: Tacendo, gridano»! Grida-no, urlano per una terra trasformata in deserto, perché il tempo del deserto è il tempo dell’esilio, del peregrinare verso alberghi e case ospitali, amici, parenti. Eppure chi è spinto del deserto (Anche Ge-sù lo fu, cf. Mc 1,12) non per abitarlo per sempre ma per attraversarlo, dovrebbe accorgersi che non c’è alternativa: bisogna andare avanti, oltrepassarlo quel deserto, vincerlo ed andare oltre. Aleggia-rono nell’aria le parole di Martin Luter King: «Cercate Dio, trovatelo e fate di lui una forza nella vo-stra vita. Senza di lui tutti i nostri sforzi si riducono in cenere e le nostre aurore diventano le più oscure notti. Senza di lui la vita è un dramma senza senso a cui mancano le scene decisive. Ma con lui noi possiamo passare dalla fatica della disperazione alla serenità della speranza. Con lui possiamo passare dalla notte della disperazione all’alba della gioia». Lo so è dura perché la fede è come una notte buia disseminata di stelle, infatti san Giovanni della Croce parlava della notte oscura della fe-de. Eppure dappertutto si realizzò che chi crede non è mai solo, non lo è nella vita e neanche nella morte. Una cordata di solidarietà, di mani che scavavano per ore, dimostrò al mondo intero cosa si-gnifica donarsi, perché dare è la più alta espressione di potenza. Paradossalmente in quel delirio di morte e sofferenza chi donava riempiva il suo cuore di gioia, erano traboccanti di vita e di felicità. Tanti, pur se lo sapevano, non avevano ancora sperimentato che amare è più importante che essere amato. I meridionali assimilarono dai giapponesi l’arte del Kintsugi, un’antica pratica e tecnica giap-ponese che consiste nel riparare oggetti in ceramica, utilizzando l’oro per saldare insieme i frammen-ti. Il kintsugi suggerisce paralleli suggestivi. Non si deve buttare ciò che si rompe. La rottura di un oggetto non ne rappresenta più la fine. Le sue fratture diventano trame preziose. Si deve tentare di recuperare, e nel farlo ci si guadagna. Nella vita di ognuno di noi, forse, si deve cercare il modo di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di crescere attraverso le proprie esperienze doloro-se, di valorizzarle, esibirle e convincersi che sono proprio queste che rendono ogni persona unica, preziosa. [Aniello Clemente]