L’interessante racconto di Sigismondo Nastri: “Osvaldo Valenti, Luisa Ferida e la loro casa, rimasta vuota, a Maiori”

26 novembre 2022 | 17:41
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L’interessante racconto di Sigismondo Nastri: “Osvaldo Valenti, Luisa Ferida e la loro casa, rimasta vuota, a Maiori”

Riportiamo un interessante racconto pubblicato dal giornalista Sigismondo Nastri: «Quasi accanto all’Abbazia di santa Maria de Olearia, lungo la strada statale 167 “Amalfitana”, s’intravede, seminascosta tra gli alberi, una costruzione tondeggiante, addossata alla roccia. Oggi è conosciuta come “La tartaruga”, non per le sue linee architettoniche ma perché di là (mi dicono) lo sguardo si affaccia su uno scoglio che somiglia tanto al carapace di una testuggine. Da quel che riesco a capire, il nome non lo si deve all’attuale proprietario, che l’acquistò nel 1955 quando era ridotta quasi a rudere (gli alleati l’avevano requisita dopo lo sbarco dell’8 settembre 1943, lasciandola poi in completo abbandono), ma a chi la stava realizzando, agli inizi degli anni quaranta del secolo scorso, perché diventasse un nido d’amore. Le vicende della storia non glielo consentirono.
Mi riferisco a Osvaldo Valenti, l’attore fucilato a Milano il 30 aprile 1945 dai partigiani della divisione Pasubio, insieme con la collega, compagna nel lavoro e nella vita, Luisa Ferida. L’accusa: adesione alla repubblica di Salò, collaborazione con i tedeschi, partecipazione alle torture della banda del dottor Pietro Koch, famigerato torturatore di “Villa Triste”, “il più feroce e sadico aguzzino della Repubblica di Salò”, come lo definisce Silvio Bertoldi (Corriere della sera, 24 novembre 2000).
Una storia d’amore, la loro, iniziata sul set e… finita sul set, potrei dire, dato che, poi, è tornata d’attualità col film “Sanguepazzo” di Marco Tullio Giordana, con Luca Zingaretti e Monica Bellucci nei ruoli dei protagonisti.
Valenti era nato a Istanbul da padre siciliano (un barone, commerciante di tappeti) e madre greca. Cresciuto tra Turchia, Italia, Francia e Germania, conosceva alla perfezione sei lingue. Dopo aver frequentato i licei di Sangallo e di Würzburg, in Svizzera, si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano, abbandonata dopo due anni per andare a vivere a Parigi, quindi a Berlino. Dal 1928 al 1944 aveva interpretato venticinque film: cito Rapsodia ungherese di Hans Schwarz (1928); Creature della notte di Amleto Palermi (1934), Contessa di Parma (1937), Ettore Fieramosca (1938), Un’avventura di Salvator Rosa (1939), La corona di ferro (1940), La cena delle beffe (1942) di Alessandro Blasetti; Il fornaretto di Venezia (1939) e Capitan fracassa (1940) di Duilio Coletti; Oltre l’amore (1940) e L’amante segreta (1941) di Carmine Gallone; Abbandono (1940) e La valle del diavolo (1943) di Mario Mattoli; La bella addormentata (1942) e La locandiera (1944) di Luigi Chiarini; Fedora (1942) di Camillo Mastrocinque. Insomma era un attore affermato, forse il divo più famoso di quei tempi.
Luisa Ferida, pseudonimo di Luigia Manfrini Farné, era nata a Castel San Pietro Terme (Bologna) il 18 marzo 1914. Ragazza esuberante, di focoso temperamento, era scappata di casa a 17 anni per andare a Roma, col desiderio di fare l’attrice. Esordì sullo schermo con Freccia d’oro di Corrado D’Errico (1935). Ma fu Un’avventura di Salvator Rosa di Blasetti, nel quale interpretava il ruolo della contadina Lucrezia, a meritarle gli elogi della critica per le spiccate capacità espressive. Le sue doti fisiche non erano da meno. Ecco il ritratto che ci dà di lei Silvio Bertoldi: “la diva sensuale e torbida, la bellissima dai grandi fianchi, dai grandi seni, dagli occhi di fuoco, dal temperamento passionale, la più popolare di allora, più delle rivali, la Calamai, la Duranti, la Valli”. Fu allora che si legò sentimentalmente a Valenti. “Il cinema dove si erano incontrati – nota Bertoldi – li aveva uniti anche nella vita e mai si sarebbe pensato a una unione tanto profonda e totale, tra due persone dissimili in tutto, così all’opposto per carattere, nascita, cultura, educazione, istinti. Vissero invece come trascinati da una predestinazione funesta, da un destino che li avrebbe travolti insieme” (Corriere della sera, 31 luglio 2001). Della Ferida vanno ricordate ancora le interpretazioni nei film La corona di ferro, Fedora, Gelosia (1942) di Ferdinando Maria Poggioli, La bella addormentata.
In una scheda biografica leggo che nel 1942 “Osvaldo Valenti sarebbe passato alla regia con I cavalieri del deserto, un film da girare in Africa settentrionale. Luisa Ferida, anche lei nel film, era incinta di quattro mesi. La guerra andava sempre peggio e furono costretti a prendere l’ultimo volo e tornare in Italia. Il bambino, Kim, nacque a Bologna, ma visse solo quattro giorni. Dopo l’armistizio (8 settembre 1943) Valenti, senza lavoro e pieno di debiti, decise di stare con la Rsi. Cinecittà si era trasferita a Venezia. La Ferida era di nuovo incinta ma abortì al quarto mese. Il ministro della Cultura popolare aveva affidato a Valenti la carica di commissario per lo spettacolo. L’attore poi si arruolò nella Decima Mas e si fece un’amante a Piacenza. La Ferida scoprì la tresca, ma la gelosia li riunì ancora di più. A Milano lui finì in carcere a San Vittore per qualche pasticcio in un traffico di pellami. Lei andò a Roma, dove incontrò il famigerato Pietro Koch, assassino amico dei nazisti che riuscì a far scarcerare Valenti. Poi i fatti precipitarono fino a quando finirono in mano ai partigiani” (Corriere della sera, cit.).
Catturati dagli uomini della Brigata Pasubio, al comando di Giuseppe Marozin, detto “Vero”, furono giustiziati su ordine di Sandro Pertini. Come riferisce Bertoldi (ma tutta la vicenda è ricostruita fin nei dettagli da Odoardo Reggiani, autore di “Luisa Ferida Osvaldo Valenti ascesa e caduta di due stelle del cinema”, Spirali editore), il futuro presidente della Repubblica disse a Marozin: “Tu hai prigioniero anche Valenti?”. Risposta: “Sì”. Pertini di scatto: “Allora fucilali; e non perdere tempo. Questo è l’ordine tassativo del Cnl”.
“Valenti e la Ferida furono spinti dai mitra e accostati al muro. Lei gli si gettò tra le braccia gridando: ‘Non voglio morire, non voglio morire’. Finalmente, dopo tanti equivoci, aveva capito. Lui le sussurrò: ‘Nella vita e nella morte insieme…’. Stringeva nella mano destra la scarpina di lana azzurra che avrebbe dovuto essere di suo figlio Kim se non fosse morto cinque giorni dopo essere venuto alla luce. Non se ne separava mai e la tenne con sé nel momento supremo… Caddero riversi nel sangue” (Corriere della sera, cit.).
Osvaldo Valenti e Luisa Ferida venivano spesso a Maiori per controllare lo stato dei lavori di costruzione della loro casa. Di solito erano ospiti “di un certo D’Amato” (forse ‘don’ Carlino, che ricopriva la carica di podestà), come Vincenzo Savastano, custode della villa del professore Bracci (il famoso urologo), situata a pochi metri da “La tartaruga”, ebbe a riferire a Luca Vespoli. Una testimonianza avvalorata da quella resa dall’avvocato Giuseppe Della Pietra: “In effetti tutti li trattavano da amici a Maiori, perché erano sempre gentili con tutti. Io ho un ricordo, seppur nebuloso, di un episodio che mi ha visto presente: mi trovavo al Circolo Sociale quando la coppia entrò e chiese, con estrema gentilezza, se potesse farlo; le fu risposto che, non essendo un Circolo a scopo di lucro e tantomeno privato, erano colà benvenuti tutti coloro che venivano in pace e in serenità d’animo. Entrambi vollero ringraziare i presenti con una calorosa stretta di mano” (Il Duca, 1-15 novembre 1992)».