The Fabelman, l’uomo delle fiabe, un gran film autobiografico di Steven Spielberg
The Fabelman, l’uomo delle fiabe, un gran film autobiografico di Steven Spielberg quello che abbiamo visto questa sera al cinema Delle Rose a Piano di Sorrento . Di famiglia ebraica proveniente dall’Europa, Steven Spielberg era un predestinato al cinema fin dal cognome, visto che spiel in tedesco significa proprio recitazione, scrive Francesca Marcellan su volere luna . Il titolo del suo ultimo film, spiccatamente autobiografico, ci gioca, creando un cognome alternativo, Fabelman, a partire da fabel, fiaba. Il regista, dunque, si presenta come l’uomo delle favole, ma per ingannare lo spettatore usa il plurale, The Fabelmans, mettendo in primo piano la coralità del racconto familiare piuttosto che se stesso.
Perché proprio la parola fiaba? La fiaba non è realistica, parte dalla realtà per forzarne i confini attraverso la fantasia. La fiaba mette in scena i desideri (il principe azzurro), ma soprattutto la fiaba nasce per esorcizzare le paure più profonde dei bambini, che vengono proiettate e sciolte in un altrove molto lontano. E i film di Spielberg sono stati in effetti delle fiabe, fin dal suo esordio con Duel (1971), un duello mortale tra un automobilista e un camion, che incarna la paura ancestrale di un Male senza volto e senza motivazioni, come in un incubo.
All’inizio di The Fabelmans, il piccolo Sam, alter ego del regista, va per la prima volta al cinema e assiste a un terrificante incidente tra due treni e un’auto in Il più grande spettacolo del mondo (1952), di De Mille. Sam ne resta colpito e ha un incubo, come un qualunque bambino. Ma la sua reazione successiva è già da regista, replicando l’incidente col suo trenino elettrico e riprendendolo con una cinepresa, per rivederlo e convincersi che è una finzione, come gli suggerisce la madre stessa. È la scoperta che, per alcune persone particolarmente creative, raccontare le fiabe funziona ancora di più che sentirsele raccontare. Fare cinema, dunque, è prima di tutto avere il controllo delle proprie emozioni, dirigendole come fa il regista con gli attori. Ma durante l’adolescenza, dai filmini girati in famiglia durante un campeggio, Sam scoprirà che nel cinema possono anche emergere le emozioni e le percezioni che si rimuovono. Si può scegliere di censurarle, tagliando dei fotogrammi, o al contrario di esporle addirittura potenziate per accumulazione, mettendo insieme in sequenza tutti i piccoli gesti rivelatori di un grande non detto e comunicando così ciò che non si riesce a dire a parole. Ma il cinema è altro ancora: è manipolazione, come si vede dal filmino girato dal ragazzo durante la festa di fine anno scolastico del liceo. La manipolazione può essere un innocente gioco di montaggio, per strappare una risata agli spettatori, ma anche qualcosa che non è per niente innocente, pur non del tutto consapevole, facendo apparire una persona per ciò che non è, trasformando un bullo antisemita in un eroe. Sam non sa dire perché lo ha fatto, ma azzarda un paio di risposte: forse per compiacere il suo nemico, o forse per trasformare la realtà, almeno sulla pellicola.
Se tutte queste scoperte vengono fatte direttamente da Sam, l’ultima è una lezione che gli viene impartita addirittura da John Ford, incontrato per pochi minuti dal ragazzo in uno dei suoi tentativi di entrare nel mondo del cinema, che gli rivela come per un regista sia fondamentale il punto di vista sulle cose, in senso letterale ma anche in senso figurato.
Il film finisce qui, come a dire che tutte le cose fondamentali che ha capito sul cinema e che servono per capire il suo cinema sono queste. E qui si capisce che il plurale del titolo non era poi del tutto ingannevole, perché esprimeva la sua visione della dimensione collettiva di quest’arte, che come le fiabe, appunto, deve saper parlare a tutti e alle emozioni più profonde di tutti, come ha saputo fare il cinema classico hollywoodiano, del quale Spielberg è stato degno continuatore.