Positano, mamma Sonia: «Uccise Fernanda, l’ho abbracciato e perdonato»

Positano, mamma Sonia: «Uccise Fernanda, l’ho abbracciato e perdonato». Il 21 ottobre del 2021 a Positano, in Costiera Amalfitana, un autista NCC investì ed uccise la 17enne Fernanda Marino. D.L., 29enne di Pompei, ignorò il semaforo al senso unico alternato di un restringimento di carreggiata. Al rosso, l’autista superò tre auto ferme a una velocità di 60/70 chilometri e con il suo minivan travolse la giovane che, con il suo scooter, si stava recando a scuola.

Carmine Landi in un articolo dell’edizione odierna del quotidiano La Città di Salerno, ha realizzato un’intervista alla mamma di Fernanda, Sonia Fusco, che riportiamo di seguito.

Dice che sua figlia è vittima di violenza stradale, non di un incidente: cosa cambia?

Decidere di sorpassare tre auto col rosso, sforare di 50 chilometri orari il limite di velocità e invadere la corsia opposta, con il senso unico alternato, è una scelta consapevole. Quando una persona attraversa e sbuca davanti all’auto all’improvviso è un incidente. Scegliere di mettere a rischio la vita à violenza.

Domenico si è assunto le responsabilità?
Fin da subito. E questo non è scontato.

Lei lo ha incontrato?
Sì. Alla seconda udienza del primo grado. Gli ho detto che capisco che lui non era uscito di casa per uccidere mia figlia, ma l’ha fatto. E la sentenza che spetta alla giustizia. Umanamente, però, tutti possiamo commettere degli errori: «Il tuo – gli ho detto – è gravissimo, perché m’ha portato via mia figlia. Io non provo rabbia e odio nei tuoi confronti, ma visto che indietro non possiamo tornare, possiamo fare tanto per cambiare quello che verrà».

Dove si trova la forza per perdonare?
Nulla accade per caso. Qualche mese prima, Fernanda m’impartì una grande lezione. «Ricorda che il perdono è un atto gratuito che fai a te stessa e non agli altri». Due giorni dopo l’incidente, risuonava questa frase. Ne ho parlato con Maria Dolores, mia prima figlia, ed abbiamo voluto lasciarci dietro l’odio ed il rancore.

Anche dopo le sentenze dei tribunali?
In primo grado il giudice rifiutò il patteggiamento a quattro anni. C’è stata la condanna ai cinque anni. Poi l’Appello…

Il giorno dell’Appello lei era in aula?
Sì. Ho ritenuto utile esserci: si parlava di nostra figlia. E invece così non è stato.

Perché?
Non ho mai assistito ad uno spettacolo tanto squallido. Lì ho provato quello che dicono le altre mamme: mia figlia ormai non esiste, è solo il numero d’una pratica da archiviare. Tra i magistrati, dopo che il difensore aveva presentato la proposta di patteggiamento a tre anni e quattro mesi, c’era una donna, forse madre: stava per raccontare la storia della violenza. Poi il presidente l’ha interrotta. Fu la prima pugnalata. Poi ha chiesto al pm se era d’accordo con la proposta del difensore. Si è limitato a dire sì. E basta. Il presidente ha chiesto all’avvocato: «Se noi accettiamo, s’impegna a non presentare appello?». E lì ho capito: era uccisa.

Tre anni e quattro mesi…
Non mi aspettavo altro, però resta l’amaro in bocca. Non per la pena: è per come lo Stato ha barattato la vita di una ragazza col tempo da non perdere. Il giudice di primo grado aveva fatto un lavoro certosino: cos’è cambiato? Si sono resi conto che Fernanda non esiste più?

È arrabbiata anche con Domenico?
No, ha fatto appello, ne ha facoltà. Condanno lo Stato che doveva farmi giustizia per educare la società, per dare un esempio.

Rieducazione e riparazione…
Due binari paralleli: da una parte c’è il percorso che noi genitori affrontiamo con gli autori di reato, che nella giustizia riparativa devono sentirsi accolti dalla comunità. Noi diciamo loro che sì, lo sbaglio possiamo commetterlo tutti, ma di quell’errore ne siamo testimoni e dobbiamo insegnare che un secondo rovina la vita. Dicono che li aiutiamo a prendere consapevolezza d’una seconda possibilità: ce l’hanno, è vero, ma va sfruttata per qualcosa di bello. In una violenza non vince e non perde nessuno. Mai. Ed io non posso provare rancore se voglio trasformare la mia tragedia in qualcosa di prezioso per me e per gli altri.

È questa la grande lezione di sua figlia?
Fernanda è sempre stata amore: da piccola la chiamavo la crocerossina. Aveva il suo caratterino, però. Era ribelle: si ribellava a ciò che non è bello. La chiamavo “Ri-belle” perché faceva ritornare il bello. Mandai un tema di Fernanda sull’amore all’avvocato di Domenico: gli dissi che non provavo rancore. Mi descrisse una persona devastata, consapevole di aver fatto l’errore più grande. E mi chiese il permesso di riferirgli la nostra chiacchierata.

Cosa ricorda del vostro incontro?
Alla seconda udienza vidi questo ragazzo in tribunale. Non l’avevo riconosciuto, ma vidi la sofferenza nei suoi occhi. Vidi una persona sconvolta. Il mio avvocato mi disse che Domenico aveva chiesto d’incontrarmi. Io ho acconsentito subito. Con me c’era Maria Dolores. Ci siamo trovati davanti una persona che si porta dietro il peso della sofferenza. D’una condanna più pesante di quella d’un tribunale.

E sua figlia?
Maria Dolores gli ha detto: «Domenico, non vorrei trovarmi nei tuoi panni perché io ho perso mia sorella, la mia migliore amica, non ricordo la mia vita senza di lei e mi ritrovo sola, ma il peso di un omicidio ti devasta, ti lacera dentro e forse non ti permette più di vivere».

È vero che lo avete abbracciato?
Sì, l’ho abbracciato io e lo ha fatto anche mia figlia. Me lo sono imposto per Fernanda. Lei merita il bello, lei è bellezza. Amava vivere. E correre: non in strada, sennò la bacchettavo, ma, per dirne una, avrebbe voluto una moto. Le ho detto sempre no: ho perso un’amica, la mia compagna di banco, a 22 anni, impattata da un’auto due curve dopo quella di Fernanda.

Qualcuno le chiama strade killer…
Non esistono strade, auto e curve killer. Esiste l’uomo killer. Solo dopo l’incidente di Fernanda la Costiera ha visto almeno altre cinque vite stroncate sulla strada. Quante volte sorpassiamo? Quante volte si guida con il cellulare in mano? Al posto di Domenico poteva esserci mio figlio, mia figlia, mio fratello. Perciò vado nelle scuole, nelle parrocchie, fermo le persone alla guida col cellulare. «Fatti i fatti tuoi», dicono. «No, i fatti miei non me li faccio. Ho perso mia figlia». Se mi porto dietro il buio, cosa posso dare agli altri? Il perdono è donare a sé stessi la possibilità di risalire dagli abissi.

Possibilità che in pochi si concedono…
La pensavo così anche io a guardarla in terza persona. Poi ho capito che per prendere per mano quel dolore sconfinato avrei dovuto vivere appieno la mia tragedia: bruciarmi come con una candela. C’è una fiammella, una speranza che ti porta a intraprendere il cammino. E se non guardo quella fiamma vedo solo il buio davanti a me. Quel perdono per me è rinascita, trasformazione, plasmare il dolore in una forza che uccide anche la morte. E mia figlia mi ha insegnato tutto questo.

Una piccola grande maestra di vita…
Il coraggio viene da lì. La fortuna è aver vissuto sempre coi miei figli, senza sprecare un attimo. Non ho rimpianti: Fernanda, come Maria Dolores e Salvatore, è mia migliore amica, mia figlia, mia complice e mia confidente.

Un dono…
Sì. L’ultima estate Fernanda e Maria Dolores lavorarono col Lucibello: lì c’è il papà. Maria Dolores era in biglietteria, conosce bene le lingue; Fernanda era ormeggiatrice sulle barche. Era amata da tutti. La scorsa estate mi sono ritrovata un gommone con scritto “Fernanda”: «Noi la sentiamo qui con noi», m’hanno detto.

La ragazza dei colori. Quelli che chiedeste d’indossare il giorno dei funerali…
Franco, il padre, ha detto: «Io non voglio un funerale funesto, voglio una festa». I colori preferiti di Fernanda erano giallo, arancione, verde. La chiamavano Esmeralda. Preziosa come una pietra. E allora quel giorno eravamo tutti colorati. E con i preti abbiamo deciso che non volevamo un’omelia triste: Fernanda è dono, anche se la sua vita, dieci anni più sette, è durata così poco. Eppure l’ha vissuta appieno.

De Crescenzo diceva che il tempo lo si può vivere in lunghezza o in larghezza…
C’è una differenza tra l’esistere e il vivere, sì. Lei è esistita ma ha vissuto. Ha fatto tanto e lasciato tanto. E quel giorno le campane suonarono a festa: abbiamo accompagnato Fernanda nel posto dell’amore. Lì mio figlio dice: «Questo sarcofago non può contenere tutto l’amore che noi abbiamo per lei». Siamo scesi in spiaggia: il Blu Bar ha servito un analcolico. I ragazzi degli ormeggi hanno portato la foto di Fernanda sul suo gommone, il “Fernanda”.

Dove ha trovato la forza, quel giorno?
Non era mia. Abbiamo trasformato il dolore nell’essere grati alla vita per aver avuto una persona così importante e bella che deve farci guardare oltre l’orizzonte.

Chi le ha mostrato la giustizia riparativa?
Erminia Capriglione, la mamma di Pietro (Villani, coetaneo praianese di Fernanda, morto a 15 anni nel 2019, ndr ) che m’invitò a un appuntamento con l’Associazione familiari vittime della strada. Iniziammo a confrontarci con gli altri genitori. Poi ci fu proposta la giustizia riparativa come misura alternativa, non sostitutiva, a quella penale, perché l’errore non si ripeta. Perché l’autore di reato sia testimone. Spesso il carcere ci riconsegna persone incattivite o distrutte. Lì, invece, c’è la luce, la fiammella, la speranza. Chi commette il reato comprende l’errore. Poi si trova di fronte il genitore d’una vittima di violenza stradale che lo accoglie. Il messaggio è: «Ragazzi, ce la possiamo fare». Lo farei con mio figlio: perché non posso farlo con gli altri? Affrontare il nostro dolore non è facile, però possiamo dargli un senso, altrimenti cosa resta? Solo Fernanda che non c’è, ma lei c’è e deve continuare ad esserci.

Chi è Fernanda?
Il mio secondo dono di vita: una ragazza che ama la vita in maniera viscerale. Di compagnia, ma pure selettiva: amica di tutti, però sceglie da chi farsi circondare. In camera ha lasciato una scritta in inglese: «Se un giorno morirò, non piangete. Alzate gli occhi al cielo e ditemi arrivederci». In un quadernetto ho ritrovato un suo scritto: «Per me è più logico morire prima di mamma, perché lei è da sempre il punto di riferimento della mia vita e io non sono disposta a perderla». Sa perché l’ho aperto?

Perché non avrebbe dovuto?
Ho sempre rispettato molto la sua privacy. A dieci giorni dalla violenza stradale, però, una ragazza di Sorrento m’ha inviato una lettera: aveva sognato due volte Fernanda. «Mi diceva di portarti questo messaggio: nel cassetto c’è qualcosa per te». Ho trovato il quadernetto.

Anche gli ultimi minuti passati insieme hanno avuto il sapore d’una profezia…
Quella colazione è stata un dono immenso: avevo iniziato il giorno prima il corso biblico e stavo studiando la Genesi. Le dissi che non mi ritornava il nostro essere fatti a immagine e somiglianza di Dio. Lei stava leggendo Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij: «Sai – disse – che anche io lì ho letto una cosa che non ho compreso? Quando torno da scuola guardiamo tutto insieme e cerchiamo di capire». Poi soggiunse: «Mamma, volevo dirti un’altra cosa. Io ho deciso di fidanzarmi, di fare sul serio». E io: «Ma con Luca state insieme da quattro mesi… ». Fernanda rispose che la domenica, mentre eravamo a Bologna da Maria Dolores, era stata a casa con lui ed insieme avevano valutato la relazione: «Abbiamo dei progetti», disse.

L’ultima confidenza…
Sì. Poi scese. Io e Franco eravamo nel giardino e lei, prendendo il motorino, passò: «Avete qualcosa di soldi?». Le abbiamo dato 20 euro. Stanno ancora a casa: sono i suoi. Fernanda ripeteva che «c’è sempre del buono in tutto quello che capita». E allora come posso permettere al dolore di oscurare la mia prospettiva di vita? Fernanda è luce, è i colori più belli che lei ha sempre amato. È il colore dell’alba: s’alzava alle quattro per vederla. Alle sei con la tavola da sup andava in solitudine fino a Tordigliano.

La sua Tordigliano…
Il 13 settembre (11 mesi dopo la tragedia, ndr ) Fernanda ha compiuto 18 anni: i suoi amici le hanno fatto la festa a Tordigliano.

Fernanda continua a parlare: lei le chiama “Dio-incidenze”…
A una settimana dalla violenza stradale, il giovedì alla stessa ora, si sono oscurati i semafori dell’incidente. Fernanda parla con me, mi dice: «Mamma, vai avanti». E non solo a me.

Il suo ragazzo…
Luca, il fidanzato di Fernanda, è il mio quarto figlio, affidato dalla croce come Gesù con l’Apostolo. Quella mattina Fernanda mi aveva parlato della loro storia e del confronto della domenica prima. Esattamente un anno dopo quella domenica, il 16 ottobre, Luca ha avuto un grave incidente stradale: era in moto, e per evitare un amico caduto davanti a lui ha preferito impattare contro la montagna. Stavano andando proprio alla curva dell’amore (quella in cui Fernanda è stata uccisa, ndr ): spesso stanno lì, dicono che sentono ancor più forte la presenza di Fernanda. Quel giorno Luca è finito in coma. Sa cosa lo ha salvato?

Cosa?
Il casco che gli ha regalato Fernanda: lo dicono i medici. Eppure è finito in codice rosso al “del Mare”. In coma. E si è risvegliato proprio il 21 ottobre. A un anno dalla violenza stradale. Ricordo la telefonata: «Luca ha ripreso a parlare ». Le sue prime parole? «Dov’è Fernanda?».

Un miracolo…
Lui dice che dopo il buio gli si è aperta una luce e che ha visto Fernanda ridere. Lei era in pigiama e non ha voluto farlo entrare. Mi ha mandato un messaggio dopo due giorni: « Mamma Sò , Fernanda non mi ha voluto».

Vuole che rimanga qui…
Luca ripete: «Lì è molto più bello, ma se sono qua c’è un motivo». Dobbiamo esserne consapevoli, perché quando io rincontrerò mia figlia lei possa dire: «Mamma, sono orgogliosa di quello che hai fatto». Io ci provo. Ci sono gli scivoloni, ma arriva sempre un Cireneo che tende la mano. Ad Erminia dico: «Tu sei l’ala destra, io la sinistra. Spicchiamo il volo insieme».

C’è un filo che lega i vostri figli…
Il marito era in classe con me. E i ragazzi si conoscevano. Ai funerali di Pietro, dopo la messa, andai al cimitero con Fernanda. Chiedevo: «Come fa una mamma a sopportare una cosa così?». Lei diceva: «Mamma, si può fare».

La ragazza del possibile…
Diceva sempre: «Puoi trasformare tutto: il dolore insegna più d’ogni cosa».

Dove si trova questa forza a 17 anni?
Dopo l’ok divino, ho aperto tanti libri di Fernanda: i segnalibri indicano tutti storie di passaggio, di vita che continua nella luce. Nel “Siddharta” c’è la parte in cui Siddharta deve affrontare l’addio al figlio come trasformazione.

Il dolore si trasforma, ma non si cancella…
Il dolore è diventato la mia migliore amica. Lo abbraccio, è parte di me. All’inizio lo portavo come una croce. Per tre mesi non ho voluto vedere nessuno se non le persone che avevo scelto. Dovevo affondare le mani in quella ferita. Poi mi si è aperto il cammino in salita dal buio alla luce. Ho capito che quel dolore non passa. Il tempo lo acuisce: è sempre un giorno in più rispetto all’ultimo in cui hai abbracciato tua figlia. Anche se l’assenza si fa presenza. Ho abbracciato l’amore, ho abbracciato il dolore.

Ci sono sempre i momenti di sconforto?
Certamente. Giovedì (il 26 gennaio, giorno dell’udienza in Appello, ndr ) ero devastata: ci ho messo due giorni per riflettere. Quand’è così piego un foglio: le cose belle da un lato, quelle brutte dall’altro. E le prime sono sempre di più. Fernanda è scritto col pennarello indelebile, e non posso permettere a chi mi fa del male gratuito di cancellarlo come se fosse a matita.

“È bello dopo il morire vivere anchora…”
Al cimitero non abbiamo voluto scrivere la data di nascita e rinascita, perché Fernanda è tutto quello che sta tra la nascita e la rinascita. C’è solo una dedica al viaggiatore che deve lasciare gli amici ed ogni cosa per solcare nuovi mari. I ragazzi mi dicono sempre: «Che bello che hai trasformato questo posto in un giardino ». Gli amici bevono un aperitivo, sempre analcolico, accerchiati dai fiori e dall’idea di Fernanda, perché lì c’è solo l’abito che lasciamo in questa scuola che è la vita. E se la vita è una scuola, devo far sì che ciò che imparo lasci del bello. La somma è sempre la gratitudine.

Anche per chi perde una figlia?
Sono grata che Fernanda non abbia dovuto patire la sofferenza: è morta sul colpo. L’ho trovata intatta, solo un piccolo taglio sulla faccia. Se potessi tornare indietro, quella mattina me la sarei tenuta a casa. Ma non posso. Devo affrontare la realtà senza piangermi addosso. Perché a me? Una volta un bambino malato oncologico mi sorprese chiedendo «Perché non a me?». Ecco: «Perché non a me?».

Interrogativo che è scelta quotidiana…
È una palestra. Ogni mattina mi sveglio e dico: «Possibile che per tutta la mia vita non potrò rivedere o sentire o riabbracciare mia figlia?». E mi dico «Sì, Sonia». E il dolore diventa un’amica. E tutti i giorni te la ritrovi vicino. E ci devi parlare. Fortunatamente ho anche gli amici che mi sostengono. E quindi la vita vale la pena d’essere vissuta, nonostante tutto.

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