Le città in ostaggio del business B&B (fonte Repubblica)
La terza puntata sulle case impossibili. Sono 600 mila gli alloggi sottratti a studenti e lavoratori. Un mercato che solo in Italia è senza regole
Su una cosa Andrea e Luca sono d’accordo: a Firenze non si riesce più ad abitare: “I turisti sono troppi, è una giungla”. La differenza è che Andrea vive fuori e il suo monolocale ai limiti del centro – Porta al Prato – lo affitta ai viaggiatori su Booking e Airbnb: “Mi aiuta a integrare lo stipendio, è pieno 200 notti l’anno”. Mentre Luca, che in quella zona vive, dai turisti si ritrova circondato. L’appartamento sopra, quello sotto, quello a fianco al suo, frazionati e trasformati nel “nido a 15 minuti dagli Uffizi”: “Sembra di essere in un albergo a ore – racconta – viavai continuo, rumori e le spese del condominio raddoppiate, tutto per difendere la rendita di qualcuno”.
Parti opposte dello stesso fronte: quello degli affitti brevi, con il loro dibattutissimo impatto sulle città. Da un lato chi invoca una stretta: gli studenti in tenda contro il caro affitti, la classe media che non riesce a comprare, alcuni sindaci, tutti in nome dell’accessibilità dell’abitare. Dall’altro chi chiede di non soffocare un settore dall’indotto miliardario: le piattaforme digitali, ovviamente, i piccoli o grandi proprietari, i property manager che gestiscono in modo professionale decine di immobili.
In mezzo, il ministro del Turismo Daniela Santanché, che ha promesso una legge per normare, parole sue, “il Far West”. Ma che per ruolo e relazioni sembra vicina soprattutto agli albergatori, il cui obiettivo è, più prosaicamente, togliere di mezzo la concorrenza di Airbnb & Co, definita “sleale”.
Finora quasi nulla è stato fatto: il nostro è uno dei pochi Paesi europei che dal fenomeno degli affittacase 2.0 si è lasciata travolgere senza provare a governarlo. Da Barcellona a Parigi, da Berlino ad Amsterdam, tutti negli anni hanno introdotto paletti più o meno stringenti, come meccanismi di licenza o tetti al numero di notti vendibili.
E non si può certo dire che il fenomeno sia marginale: 600 mila case sui portali, tra città, borghi e località di villeggiatura. “In Italia la questione è stata molto poco discussa e regolata, al massimo da un punto di vista turistico o fiscale”, dice Francesca Artioli, professoressa di Politiche urbane all’Università Paris-Est Créteil. Oggi le piattaforme raccolgono la tassa di soggiorno per i Comuni. Oltre i quattro immobili si diventa imprenditori, uscendo dal regime fiscale della cedolare secca al 21%.
Alcune Regioni hanno imposto un codice identificativo agli appartamenti, e in teoria lo prevede anche una norma nazionale, inapplicata. “Ma oggi – prosegue Artioli – il dibattito è stato riaperto da una mobilitazione dal basso, nata da movimenti, dagli studenti e da qualche sindaco, accomunati da un sentimento di inaccessibilità della casa”.
È un effetto della strana ripartenza post-pandemia, che in mezzo all’inflazione galoppante ha riportato tutti verso le città più attrattive, lavoratori, universitari e turisti. I dati di AirDna, società che monitora le case in affitto breve, mostrano che dopo la mazzata del Covid il numero di annunci è tornato a salire con decisione. Non siamo ai valori pre-contagio, ma a essere sparite sono soprattutto le singole stanze – la sharing economy prima maniera, qualcuno se la ricorda? – e le sistemazioni di minor qualità, come testimoniano prezzi medi ai massimi storici.
Troppe case-albergo, per il bene di chi cerca una casa-casa? Ecco il primo oggetto del contendere. “In Italia ci sono 9,5 milioni di abitazioni sfitte, con poche eccezioni la demografia sta svuotando le città e si colpevolizza un fenomeno che in realtà pesa pochissimo, il 2% delle case”, risponde Marco Celani, fondatore di Italianway, una delle principali società di property manager. Aggiungendo che parte di quelle case, per caratteristiche e posizione, non sarebbe comunque adatta a studenti o lavoratori.
Ma ciò che è vero per alcuni quartieri, non lo è per altri. E una crescente mole di studi, oltre a tante storie, mostrano che l’effetto sostituzione tra abitanti e turisti esiste. “A Venezia il mercato degli affitti residenziali non esiste quasi più”, racconta Silvia, 40 anni, organizzatrice di eventi che ha deciso di tornare a vivere nella sua città natale, salvo ritrovarsi a cercare casa per un anno, respinta da cartelli inquietanti: “no residenti, no studenti”.
Il perché lo spiega la convenienza, in senso ampio. Il rendimento di un affitto turistico per chi compra o possiede un appartamento da 65 metri quadrati nelle maggiori città è superiore all’affitto tradizionale. A Roma, Venezia, Firenze, le più turistiche, la differenza è evidente: nella Capitale, secondo simulazioni di Idealista, si possono incassare oltre 26 mila euro l’anno contro 10 mila, al lordo delle tasse (che sono comunque le stesse, cedolare secca). Il vantaggio è più contenuto ma ancora sensibile a Bologna e Napoli, limitato a Milano, calamita di lavoratori che spingono la domanda di affitti tradizionali.
Ma oltre alla rendita, che varia molto secondo la zona, ci sono altri due fattori che quasi tutti i proprietari citano: la flessibilità, si mantiene la disponibilità della casa, e soprattutto la sicurezza rispetto al rischio morosità di inquilini difficili da sfrattare. Vale soprattutto per i piccoli proprietari, gli “host” da un appartamento. Solo che insieme a loro, sulle piattaforme, c’è un’ampia area grigia di imprenditori in tutto e per tutto, salvo che nel nome: Roberto racconta di aver preso in affitto sei appartamenti a Firenze, che poi subaffitta ai turisti, ricavando per ognuno più di mille euro al mese e dividendoli a metà con un “socio”, per restare sotto la soglia dei quattro. E ovviamente ci sono le aziende che gestiscono – o a volte possiedono – decine di appartamenti, puntando sulle economie di scala per alzare i rendimenti.
Che gli affitti brevi non siano la sola causa, e forse neppure la principale, dell’emergenza casa nelle grandi città, lo riconosce anche chi vuole la stretta. I centri si stavano spopolando già prima di Airbnb, trasformati in parchi turisti con case vecchie e sempre meno servizi. Edilizia popolare e politiche abitative in Italia sono dimenticate da decenni. E se all’estero i paletti alle locazioni turistiche ne hanno bloccato la crescita, soprattutto dei soggetti con multiple proprietà – a patto che si controlli, a Barcellona si aggirano 40 ispettori – , non c’è ancora una solida evidenza che i metri quadri negati alla rendita siano davvero restituiti all’abitare. “Per l’edilizia popolare gli strumenti ci sono, mancano le risorse e la volontà politica, sugli affitti brevi invece il vuoto è anche normativo”, dice Giacomo Menegus, ricercatore di Diritto e attivista, tra gli autori della proposta di legge presentata dal collettivo Alta tensione abitativa.
Ispirata alle regolazioni internazionali, affida ai Comuni un regime di licenze contingentate per zona e limitate a cinque anni, dopo i quali la casa deve tornare in affitto tradizionale, e la licenza passa a qualcun altro. La proposta è stata rilanciata da una serie di assessori per la Casa di centrosinistra, Milano, Bologna, Napoli e Padova, desiderosi di prendere in mano una materia litigata tra Stato, Regioni e municipi. E si è affiancata a quella, più morbida, del primo cittadino di Firenze Nardella. Tutti molto irritati per il fatto che Venezia l’anno scorso ha ottenuto una legge speciale per regolare il settore, anche se finora il sindaco Brugnaro, quello che attacca gli studenti in tenda, non l’ha attuata.
Nei suoi giri di tavolo Daniela Santanché ha sentito anche i sindaci. Ma la prospettiva con cui la ministra del Turismo sta preparando il suo disegno di legge pare diversa. Non solo perché nel Paese dei tanti proprietari di case il centrodestra è sempre stato paladino del patrimonio abitazione e della sacralità della proprietà privata. Ma anche per la sua vicinanza con il mondo degli albergatori: Bernabò Bocca, da 23 anni al vertice dell’associazione di categoria, è stato parlamentare di Forza Italia, e la ministra ha affidato il dossier al parlamentare di Fratelli d’Italia Gianluca Caramanna, pure lui del settore. Santanché ha detto che “scontenterà qualcuno”, ma le ipotesi circolate sono tutte molto gradite agli albergatori: un limite massimo di 120 notti per appartamento, che taglierebbe fuori i gestori professionisti, e un limite minimo di due o tre notti di permanenza per il turista, che a quel punto non avrebbe alternative ad hotel e Airbnb. Il tutto fatto con norma nazionale, piuttosto che, come all’estero, delegando agli amministratori locali. “La vera differenza è come viene inquadrato il problema – dice la professoressa Artioli – se come una questione turistica oppure abitativa. Altrove la filosofia è difendere la disponibilità di case in quanto case. Senza questo spostamento non si andrà molto avanti”.