Museo Campano di Capua e le Matres Matutae.Le misteriose e affascinanti statue matronali di tufo
La Penisola Sorrentina Amalfitana e il Museo Campano di Capua sono accomunati da quello stemma della antica famiglia d’Alagno, che sentenzia la presenza di questa nobiltà in entrambi i luoghi e dal passaggio di Amedeo Maiuri nel 1953 sia a Capua che a Sorrento nel Museo Correale, come egli stesso racconta nel volume passeggiate archeologiche in Campania. Ad accoglierci il neo direttore Gianni Solino , succeduto a Mario Cesarano, che concede cortese intervista , nella quale offre una panoramica dello stato dell’arte, sia suo contenuti che sulle linee di lavoro e sui visitatori.
Rinvenimento casuale nel fondo Patturelli. Nel 1845 Carlo Patturelli, durante lavori edilizi nel suo terreno lungo la via Appia, fuori le mura dell’antica Capua, scoprì i resti di un edificio sacro e le sculture in tufo oggi note come matres matutae. Le Madri, così lontane dall’iconografia classica, destarono impressione negli scopritori e nei primi studiosi: «tozze e mostruose sì che sembran rospi» («Il Giornale di Pompei»,1846). Comunque, a evitare che i lavori venissero interrotti dalle autorità, il Patturelli reinterrò tutto. Gli scavi furono ripresi nel 1873 conl’intento di rivendere gli oggetti più belli, mentre elementi architettonici del santuario furono lasciati sparsi intorno al Casino Patturelli, fino a quando nel 1876 una parte fu trasferita nel Museo Campano, unitamente alle madri e agli altri reperti.In assenza di ogni documentazione, poco si conosce degli edifici e delle fasi del santuario,ma la grande quantità di terrecotte architettoniche raccolte testimoniauna continuità di vita dell’area sacra dal VI al II sec. a.C.
Sfingi alate lungo la gradinata che portava all’altare. L’archeologo tedesco Herbert Koch, che nel 1907 aveva affrontato lo studio dei materiali e delle strutture conservate, ipotizzò che nell’area fosse presente un altare monumentale in tufo, costituito da un podio rettangolare, cui si accedeva da una gradinata di dodici scalini, fiancheggiata da pilastrini sormontati da sfingi alate. Sulla sommità si collocavaun’edicola, contenente un altare e una statua di culto. Saggi eseguiti nel 1995 hanno permesso di identificare con certezza il sito del santuario, che risulta distrutto da un incendio in età romana. All’interno dell’area del santuario, disposte in modo da essere visibili solo frontalmente e collocate forse una accanto all’altra lungo pareti, erano le oltre centosessanta matres rinvenute. Scolpite nel tufo grigio del monte Tifata, le matres riproducono una figura femminile seduta su un sedile più o meno elaborato,recante in grembo uno o più bambini in fasce. In queste statue è stata riconosciuta la figura della donna offerente che dona alla dea la propria immagine accompagnata dai figli. La dea venerata nell’area sacra viene identificata con Matuta, sebbene dibattuto e incerto ne sia tutt’oggi il riconoscimento.




Sono oltre 100 statue di tufo raffiguranti donne sedute in trono, che hanno tra le braccia un numero variabile di neonati in fasce. Provengono da uno scavo iniziato nel 1845 nel fondo di proprietà Patturelli-Pellegrini nei pressi della porta orientale dell’antica Capua (quella di Spartaco!), oggi nel territorio tra Curti e Santa Maria Capua Vetere. Non sappiamo se furono rinvenute per caso durante lavori di sistemazione della proprietà o nel corso di uno scavo programmato con l’intenzione di saccheggiare tombe e rivenderne clandestinamente, in frode alle leggi vigenti, gli oggetti di corredo. Oltre alle statue si rinvennero terrecotte architettoniche ed ex voto, preziose iscrizioni nella lingua osca delle genti locali, note come Iovilas, diversi altari ed edicole di tufo, numerosi vasi. Molte cose furono distrutte, molte vendute all’estero, tant’è che alcune statue di Matres sono a Berlino e ad Amsterdam, molte terrecotte architettoniche possono osservarsi a Parigi, a Francoforte, a Boston. L’apertura del Museo Campano nel 1874 pose fine a questa emorragia e la massima parte dei materiali, scavati ancora nel 1873 e in seguito, confluirono nelle sue sale. Lo studio attento della storia degli scavi e una visione d’insieme dei tanti materiali che ne sono scaturiti consente oggi agli studiosi di fare ipotesi plausibili sul contesto di rinvenimento. Doveva trattarsi di una grande area sacra, un santuario, frequentato a partire dal VI sec. a.C. e forse non oltre il I sec. a.C. Tra il VI e il III sec. a.C. si datano le terrecotte architettoniche, per la maggior parte antefisse con figure di Gorgoni e di divinità femminili, realizzate da maestranze forse provenienti dalla greca Cuma e che dovevano decorare due templi. Le iscrizioni in osco, le Iovilas, si collocano tra il IV e il III sec. a.C., quando ad abitare il territorio sono i Campani, nella sostanza Sanniti intrisi di cultura etrusca egreca. Questi testi furono realizzati su stele di tufoo di terracotta e prendono il nome da un termine spesso ripetuto su di esse, che forse le identifica osi riferisce a qualcosa ad esse pertinente, rientrante in un culto di ambito “giovio” e non per forza riferito a Giove.