Agerola, paese fatto di terra

Riceviamo e pubblichiamo un bellissimo scritto da parte di una nostra lettrice, Ilaria Lauritano, che, nonostante abbia lasciato Agerola già da tanti anni, per lei resta sempre un posto magico e che le fa comprendere al meglio il significato della parola “nostalgia”

Agerola, paese fatto di terra

Meno di un secolo fa, Agerola era un paese fatto di terra.
La terra spezzava le schiene, entrava nelle rughe e nelle unghie,
odorava anche le vesti e le lenzuola.
La terra, amata e odiata, custodiva il passato
e germogliava il presente.
Non prometteva futuro.
La terra era temuta, rispettata, curata,
abitata.
La terra era piena di voci,
bestemmie e canzoni,
risate e litanie.
Nella terra a volte si nasceva, tutti nella terra chiudevano gli occhi.
Dalla terra arrivava il cibo che sfamava lo stomaco
ma la terra affamava di sogni…
andare lontano, un giorno, da lei,
non avere bisogno di lei,
vincere il suo ricatto di protezione
anche a costo di far sanguinare le radici,

farsi straniero, tornare “studiato”.

Il mare le era vicino ma solo da sfondo,
come parenti lontani…
la costiera era per gli agerolesi
mercato dove far arrivare
quello che produceva la terra,
ma gli scalini erano tanti, erano troppi,
dividevano due mondi e due elementi,
due pesi diversi da dare alla vita.
L’acqua era leggera ma pericolosa,
per stare a gallabisognava staccare i piedi dal suolo
e gli agerolesi, mio padre, non sapevano nuotare.

La terra era intorno alla casa
e la casa custodiva ciò che produceva la terra.
Ad Agerola era ricchezza la Casa,
mattone dopo mattone

germogliava come le sementi in primavera,
proteggeva nel tufo
tradizioni, ricette,
lutti, segreti:
nelle cantine e nei soffitti quello che aveva dato la terra,
nelle stanze la storia di quella famiglia,
nel portico aperto e ornato di sedie all’ingresso
l’antico rituale dell’ospitalità.
Dalle case uscivano donne e uomini antichi,
che si portavano addosso
fin da bambini
tutto il passato del cognome che avevano al collo.
Anche le case diventavano a volte
apnee di respiro,
velate d’estate e d’inverno di un odore
di terra umida, di cenere, di freddo.

Erano piene di storia, radici anch’esse

da estirpare talvolta
e da riannodare
quando si aveva bisogno
di ricordarsi
chi si era, da dove si era partiti,
dove davvero si voleva arrivare.
C’erano pochi libri
nelle case ad Agerola
ma tanti racconti narrati.

Oggi
ad Agerola
è sola la terra,
intricata di rampicanti, altissime erbacce,
alberi da frutta che annaspano
nel confuso presente
e qualche bellissima rosa
appassita.

La terra è silenziosa, arresa,
vergognosa si ritrae agli sguardi
come una donna antica,
mia nonna,
sorpresa di prima mattina
con i capelli nerissimi
non ancora raccolti, ordinati nel tuppo.
Orgogliosa ma vinta,
indomita
domata di incuria.

Agerola non ha più radici, non germoglia presente,
continuano a non esserci libri e
sono muti anche i racconti
ma ha voglia di futuro, di un futuro in vetrina.
Nelle case, le stanze sono verniciate di fresco,
decorate di agrumi e di mare
come sore-cugine di Amalfi,

tutte uguali le une alle altre,
hanno perso le storie scritte
nel tempo
sui parati,
nelle credenze e sulle testate dei letti,
l’odore di legno, i cassetti impregnati di umidore di frutta,
e al dialetto contadino di Agerola
si aggiunge e si copre
dalle finestre
il miscuglio di
mille lingue, provenienti da ogni parte del mondo.

Ecco il futuro, giovane, pulito, cosmopolita,
instagrammabile,
il turismo
che tutto riluce,
che porta alla ribalda,
che riscatta dai padri,

dallo scherno subito per anni,
ma che, se fine a se stesso,
senza cura delle radici,
tutto cancella.

Agerola allora si infiocchetta
per due mesi all’anno
con un festival incorniciato di nomi eccellenti
ma di cui gli agerolesi non possono leggere i libri
in una biblioteca sorta per loro
e prepara le case ai camminatori di tutto il mondo
che attraversano il paese,
ne ammirano il dono ospitale
ma non ne possono leggere la storia.
Perché le case sono imbiancate di fresco
e i vecchi, come la terra,
non hanno più cunti da raccontare,
non hanno più chi intrecci i truocchi per loro.

I loro racconti, come le erbe che una volta
profumavano il latte delle mucche agerolesi,
sono arsi, restano intricati nei pensieri,
e la loro bellezza rude, difficile,
la sente solo qualche farfalla
che si posa su un ramo,
su una parola silente.

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