Archeologia in Penisola. Venti anni fa la scoperta della Necropoli di Via San Martino. 2003-2023

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In occasione dello scavo del Parcheggio interrato a Sant’Agnello, sotto il grande platano, all’angolo corso Italia via San Martino, nel 2003, esattamente 20 anni fa, furono ritrovate una serie di tombe, in quantità tale da parlare di necropoli. La soprintendenza intervenne con gli archeologi, che recuperarono tutti i reperti. Fu apportato una modifica al progetto generale del parcheggio interrato, per conservare e fruire dell’ambiente a meno di due metri di profondità rispetto al piano stradale. I cittadini guardavano incuriositi queste operazioni di scavo, sopportarono l’allungo dei tempi, ma da allora non si è saputo più niente. I reperti , forse sono conservati nel sottotetto di Villa Fondi, sede del museo territoriale Georges Vallet, ma non sono mai stati pubblicati. A venti anni di distanza, interpellato un giovane scavatore di allora, oggi famoso, ci dice che tutto fa capo alla dott.ssa Budetta, ma essa è in pensione, quindi buio totale.

Venti anni, e chi sa quanti altri ancora ne passeranno prima ancora di vedere i reperti e leggere la pubblicazione, se mai sarà fatta.La storia archeologica di Sant’Agnello potrà mai essere redatta? I progetti della Soprintendenza dove vanno a finire? Dalle telefonate giunte nella redazione di Positanonews si evince una ulteriore preoccupazione anche per quanto progettato dalla Soprintendenza per la Necropoli di Sottomonte e per quella del fondo Sabino località Parsano, altro parcheggio interrato, con all’interno un colombario di epoca romana, tutto fermo e impaludato.

L’unica cosa che sappiano sulla Necropoli di via San Martino sono un piccolo scritto pubblicato su Fasti Online, che riportiamo integralmente e un saggio panoramico di Claude Albore Livadie, per far comprendere l’importanza e la valenza storica di questa Necropoli.

——————————–dal sito Fasti online:

A Sant’Agnello è stato effettuato il primo scavo archeologico della necropoli orientale dell’antica Surrentum , in un’area situata all’incrocio tra Corso Italia e Via San Martino.

Il nucleo principale era costituito da un recinto in opus incertum all’interno del quale sono state rinvenute ventidue tombe: otto ad incinerazione, una a ustrinum , una enchytrismos e dodici ad inumazione in fosse semplici di terra, tombe con copertura piana e con copertura “a cappuccina”. La necropoli è databile tra il I secolo a.C. e il IV secolo d.C

I dati di scavo indicano che la fase più antica è costituita dall’installazione nell’area di un campo di urne cinerarie con lapidi.

Tra le sepolture ad inumazione si segnala quella situata al centro del recinto. Coperto da un imponente tumulo, aveva una copertura “a cappuccina” con tegole impostate su un doppio parapetto di pietre e poggiante a sud su un grosso blocco di calcare appositamente sagomato. Al di sotto del coperchio “a cappuccina” il defunto giaceva in un sarcofago di piombo, il cui coperchio presentava due anelli per l’imbracatura e il sollevamento. In questo caso l’obolo di Caronte è stato trovato tra le gambe dello scheletro.

La sequenza delle sepolture ha evidenziato un periodo di congestione all’interno del recinto, tanto che è stato necessario sfruttare gli spazi a ridosso delle sue mura perimetrali sia all’interno che all’esterno. Fuori dal recinto la necropoli proseguiva verso sud con tombe “a cappuccina” e cremazioni a busto . Ad est, fuori dal recinto, sono emerse dodici inumazioni, un bustum e un enchytrismos.

Fausto Zevi – Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

Tommasina Budetta – Soprintendenza dei Beni Archeologici delle province di Napoli e Caserta

Ente di Ricerca Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Province di Napoli e Caserta

——————————dal sito Persee  https://www.persee.fr/doc/btcgi_0000-0009_2010_num_18_1_4499

SANT’AGNELLO  Claude Albore Livadie Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle Isole Tirreniche  Année 2010  18  pp. 172-174

SANT’AGNELLO
Comune di Sant’Agnello, provincia di Napoli, Soprintendenza per i Beni Archeologici delle province di Napoli e Caserta, Napoli. IGM 1:25.000, F. 196 INE.
A. FONTI LETTERARIE, EPIGRAFICHE E NUMISMATICHE
Mancano fonti riferibili al sito.
B. STORIA DELLA RICERCA ARCHEOLOGICA
Indicazioni alquanto vaghe di ritrovamenti in varie parti del territorio di «antiche fabbriche, monete e terraglie» sono in Fasulo (C 1906). Filangieri pre- cisa, invece, però con un’ubicazione alquanto vaga, che «tombe 173
SANT’AGNELLO
vasi furono scavate presso S. Agnello» (Filangieri C 1929) riferendosi senza dubbio alle notizie date da Beloch (C 1879). Trattasi della necropoli così detta di Sottomonte, il cui materiale ceramico (VII-VI sec. a.C.) è in parte confluito nella collezione Fluss a Sorrento (Mingazzini-Pfister C 1946) ed in altre colle- zioni (Schultz C 1842), come il vaso Pourtales. Di recente è stata individuata una vasta area con sepolture con ricco materiale appartenente alla seconda metà del VI sec. a.C. in località San Martino, purtroppo non ancora indagata scientificamente.
I dati archeologici più consistenti sono localizzati nell’agrumeto del ‘Pizzo’ dove si trovano, a pochi metri dall’attuale piano di campagna, resti di strutture romane appartenenti a più abitazioni, condutture, cisterne e grandiose gallerie ipogee con vani comunicanti; queste ultime, costruite a sacco, sono rivestite in parte da blocchetti di tufo e ricoperte di grosso intonaco cementizio signino. Una propaggine di queste gallerie corrisponde senz’altro alla cisterna (pro- fonda 12 m) immediatamente sottostante alla villa ‘Pizzo’ di proprietà Zancani Montuoro, alimentata da condutture di 20 cm di diametro.
Del tutto indipendenti dall’attigua e sottoposta calata a mare, il sistema di gallerie è stato parzialmente esplorato nei mesi di febbraio e marzo 1959 da Onorato, poi da Napoli (Soprintendenza archeologica di Pompei, Napoli e Caserta) e seguito per varie centinaia di metri. Si sono potuti individuare numerosi pozzi di luce romani, lucernari e cunicoli con uscita vicino alla calata a mare. L’ipotesi più attendibile è che siano state usate come riserve d’acqua, forse per la flotta di Miseno. Non poterono più essere usate dopo che l’eruzione del Vesuvio (79 d.C.) le riempi di ceneri. La «<villa con vani semi-interrato»> di cui Mingazzini e Pfister (C 1946) danno la pianta, costi- tuisce solo una parte di un ampio edificio che si estende ampiamente nel Pizzo. Distrutto dall’eruzione vesuviana è stato, a quanto pare, riedificato sulle stesse fondamenta. Condutture d’acqua, diramazione dell’acquedotto antico del Formiello, il cui tracciato segue l’antica via romana (l’attuale via Provinciale Meta-Sorrento) portavano acqua alla villa.
Degna di nota è la villa presso ‘Il Terrazzino’ in gran parte franata a mare, di cui resta sul posto la base di una colonna di mattoni e la soglia d’in- gresso, mentre si sono raccolti diversi frammenti d’intonaco dipinto all’in- terno della proprietà ‘Il Pizzo’ e in prossimità di una delle ville costruite nel 1739- nel luogo detto Capozello (che potrebbe suggerire il rinvenimento di testine di terracotta) – abbonda la ceramica sigillata sottile a guscio d’uovo (verosimilmente di fabbrica sorrentina) e la ceramica rozza, inquadrabili grosso modo nel I sec. d.C. Le strutture antiche indiziate si trovano a note- vole profondità (8 m ca.).
La Calata a mare costituisce una delle più antiche testimonianze della zona. Infatti la sua origine greca risulta evidente dalla tecnica sfruttata inizial- mente per ricavarla dalla parete tufacea mediante successivi tagli: il primo taglio ‘a terrazza’ è a rampe in pendenza; il secondo all’interno del prece- dente, risparmiando il parapetto ed ottenendo il piano inclinato di calpestio, il terzo al centro del precedente, così da avere una sorta di canale fra due ban- chine laterali, forse per lo scolo delle acque piovane (due altre calate locali, nel vicino Golfo del Pecorello – tra villa Crawford ed il Pizzo – da pochi anni interrate, presentavano lo stesso particolare tecnico). L’ultima rampa in basso era a gradini. Il confronto più immediato è la cd. ‘scala fenicia’ a Capri.
Una seconda fase – successiva al crollo, con il tempo, della settima rampa e in parte dell’ottava – corrisponde al tentativo di prolungare con incisione ad arco nel tufo la sesta rampa. Accertata l’inconsistenza della roccia si preferì procedere ad angolo retto per 5-6 m verso l’interno e poi riprendere in grotta la discesa a mare; con tre singole diramazioni furono aperte ampie finestre sul mare. Raggiungeva l’attuale ‘grande caverna’ e si apriva sul mare a 6-7 m dal livello attuale; mancano indizî per datare questa fase che potrà definirsi ellenistica e romana.
In età medievale la caverna divenne cava di pietra; sono ben visibili i segni degli strumenti usati dai ‘tagliamonti’. Notevolmente ingrandita, fu anche abbassata fino alla quota attuale e la rampa inclinata fu trasformata in gradinata a partire dalla seconda finestra. Ulteriori modifiche furono appor- tate dai proprietari dalla metà del XIX secolo.
Nella non distante villa marittima così detta del convento dei Cappuc- cini (oggi Villa Nicolini) (Mingazzini-Pfister C 1946) si conserva un’ampia peschiera con lucernaio, scavata nella pietra tufacea, pochi resti di strutture in reticolato con conci di tufo, appartenenti ai muri di terrazzamento e forse all’alzata della villa stessa. Alla peschiera conduceva una calata a mare in galleria coperta con ultimo tratto in basso a gradini.
C. BIBLIOGRAFIA
1842 H.W. SCHULTZ, Scavi della Basilicata, Bull Inst, XIV, 1842, 33-41.
1879 J. BELOCH, Campanien, Bresgau 1879, 267. 1906 M. FASULO, La penisola sorrentina. Istoria. Usi e costumi. Antichità², Napoli 1906, 449/ASNP, 1907, 199 Fedele.
1929 R. FILANGIERI DI CANDIDA, Sorrento e la sua penisola, Bergamo 1929, 48. 1946 P. MINGAZZINI – P. PFISTER, Forma Italiae, Regio I, Latium et Campania, II, Surrentum, Firenze, 1946, 101-102, fig. 13, 102-104, fig. 14.
[CLAUDE ALBORE LIVADIE]

Note del redattore :

-Ustrinum designava per i Romani uno speciale luogo, presso le necropoli e i colombarî, dove i parenti bruciavano i corpi dei loro cari per poi raccoglierne i resti combusti in urne marmoree od olle fittili che depositavano nel vicino sepolcro. Nella pietosa operazione erano assistiti da esperti in materia, che si dicevano ustores.

A Roma ve ne furono molti sino alla fine della repubblica nelle vicinanze del campus Esquilinus, dove erano vaste necropoli popolari. Un editto del pretore L. Sextius della fine del sec. I a. C. proibì che si stabilissero ustrina a una certa distanza dal campus Esquilinus e dal pagus Montanus. Più tardi furono tutti relegati fuori della città. La legge della Colonia Iulia Genetiva in Hispania proibisce lo stabilirsi di nuovi ustrina a meno di 500 passi dalla città.

Il rito della cremazione (crematio) si svolgeva così. Gettati fiori o corone sulla catasta lignea (rogus), le si dava fuoco fra nenie di lamento e si versavano sulle fiamme vino o profumi. Spente le brace, si raccoglievano fra le ceneri le ossa combuste del morto; che talvolta si aspergevano con vino o con miele. Accuratamente asciugate, si racchiudevano nell’olla o nell’urna, che veniva deposta nel sepolcro con alcuni vasetti di olio o di unguenti. Eccezionalmente si costruirono entro Roma l’ustrinum imperiale presso il mausoleo di Augusto (Augusteum) nel Campo Marzio e il grandioso ustrinum Antoninorum, anch’esso nel Campo Marzio, identificato nel 1703 dall’architetto Francesco Bianchini, nei pressi della piazza di Montecitorio e precisamente dove sorgeva la chiesa e la casa dei Signori della Missione.

Un altro ustrinum imperiale fu messo in luce, vicino al precedente, nel 1910 durante i lavori di fondazione del nuovo braccio del palazzo di Montecitorio, dove ora sorge l’aula parlamentare. Questi ustrina erano formati da un recinto quadrato a pilastri di travertino con inferriata, di circa m. 30 di lato (100 piedi romani). Seguiva un secondo recinto di 23 m. di lato; nel mezzo vi era una base quadrata di 13 m. di lato (cfr. Herodian, IV, 1). L’ustrinum augusteo era invece di forma circolare (Strab., V, 3, 8).

-Enchytrismòs è un tipo di sepoltura che in epoca preistorica veniva praticato per inumare i bambini. Consisteva nel deporre il corpo all’interno di un vaso in terracotta (pithos) con il corpo in posizione rannicchiata.
Il pithos veniva deposto in un anfratto di roccia, ricoperto da un cumulo di pietrame, e rimaneva visibile sulla superficie del terreno. In genere questa sepoltura era riservata presso spazi distinti rispetto a quelli in cui trovavano posto gli adulti. La sepoltura avveniva assieme ad oggetti in miniatura (figure umane, di animali, stivali e carrettini-giocattolo).

Opus incertum è una tecnica edilizia romana che riguarda il modo in cui viene realizzato il paramento di un muro in opera cementizia. Venivano utilizzate pietre di misura diseguale poste con le facce combacianti tra loro, dando come risultato un disegno irregolare e casuale. A Roma e nei dintorni fu utilizzata soprattutto dagli inizi del II secolo a.C. fin poco dopo la metà del I secolo a.C., ma può essere presente anche in epoca successiva in costruzioni private di non grande impegno e per i terrazzamenti.

– Tomba alla cappuccina è un tipo di inumazione etrusco-romana, diffusa soprattutto in epoca imperiale e destinata per lo più alle classi meno agiate.  In una fossa venivano stese alcune lastre in terracotta, tipicamente prese dalle manifatture che producevano coppi per la copertura degli edifici, o in pietra, o sulla nuda terra. Vi veniva poi steso il defunto, o in una cassa lignea o semplicemente avvolto in un sudario, e in seguito coperto da tegoloni (tabellones), congiunti alle estremità e al vertice da embrici; il tutto poi veniva coperto di terra. Il corredo del defunto era per la maggior parte dei casi minimo, se non assente. Questo tipo di sepoltura viene detto così perché, se guardato in sezione frontale, ha la forma di un triangolo come il cappuccio dei frati cappuccini. Molto diffusa nell’età tardoantica, se ne riscontra l’uso anche nel primo medioevo.

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