“L’Esprit sauvage de Positano”, Alla Chernetska intervista Gianni Menichetti

« Le monde n’est pas aussi étroit que vous le pensez, l’espace dans notre boite crânienne est infini. Il doit y avoir un moyen de contourner les problèmes que nous nous sommes créés. Et la solution réside probablement dans l’imagination de tout-un-chacun, qu’il serait temps d’utiliser un peu plus sérieusement. »
― Alan Moore

Parigi – È la critica d’arte francese Alla Chernetska (Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne)  a occuparsi della ballerina e artista bohémien Vali Myers (2 August 1930 – 12 February 2003) e del poeta e artista toscano Gianni Menichetti, entrambi potremmo definirli senza tema di smentita genius loci del Vallone Porto nei pressi del pittoresca città di Positano, un sito di interesse comunitario per le sue peculiarità naturalistiche. La studiosa francese lo fa dedicando alla Myers e a Menichetti un articolo sulla prestigiosa rivista “La Spirale”, fondata da Laurent Courau negli anni ’90, prima magazine oggi piattaforma che ha scelto come mission di documentare i sussulti che scuotono “il ventre molle dell’informazione” difendendo l’idea che gli eccentrici di oggi annunciano il mondo di domani e che le correnti culturali più interessanti sistematicamente appaiono ai margini, lontani dalla ronfante siesta delle istituzioni e dei mass media. La Spirale.org ha ospitato e ospita sulle sue colonne scrittori, giornalisti e artisti come Maurice G. Dantec, Michel Houellebecq, Jean-Marc Ligny, Roland C. Wagner, Douglas Rushkoff, Yann Minh e Maxence Grugier che si sono espressi liberamente, anche in opposizione, in numerose occasioni sulle sue pagine. Vali Myers che negli anni parigini frequentò Jean Cocteau, Jean Genet, Tennessee Williams e Django Reinhardt, per citare solo alcuni dei grandi personaggi che hanno incrociato il loro con il suo di destino e Gianni Menichetti, alunno del Lama tibetano Namkhai Norbu, rientrano in questo contesto di esponenti di una controcultura che ha tracciato strade diverse a partire dagli anni ‘60 e ’70 nel segno, se mi permettete l’azzardo, rendendo anche omaggio ad un grande filosofo che oggi piangiamo Gianni Vattimo (1936- 2023) del “Pensiero debole”. Come scrive Erika Riva:  “Il mondo è vasto, le culture varie e sconosciute, le scoperte sempre nuove e il pensiero si piega su se stesso, si fa piccolo e timido, alza un po’ la testa senza sapere se avanzare o retrocedere.// Cos’è il pensiero debole? Se dovessi spiegarlo a un amico, senza pretese, gli direi che “pensare debole” significa essere consapevoli che tutte le verità che raggiungiamo sono circoscritte, legate a una temporalità specifica, a uno scopo, a un progetto preciso. Proprio per questo non possono essere verità assolute. “Pensare debole” vuol dire ammettere che anche il nostro essere non è poi così stabile e certo: ben poco di noi è realmente “sperimentabile”; cos’è la paura che proviamo? Cos’è l’amore? come faccio a sapere se sono sentimenti “veri e reali in assoluto”? Semplicemente non posso. Eppure nonostante questa indeterminatezza “io sono”. L’essere non è più una presenza inevitabile, assoluta. L’essere è tempo. Si è nel divenire di un progetto. Si è in relazione a… nel fare con gli altri. Da dove viene questo pensiero debole? Siamo arrivati ad un punto in cui le certezze della filosofia classica sono venute meno. Di più: il pensiero debole nasce proprio come risposta alternativa alla modernità classica, alle verità assolute. Verità che troppo spesso sono valse da pretesto per imporre un credo, senza argomentazioni. Come è stato possibile passare da una visione della verità e dell’essere “assoluta”, come quella platonica, alla visione del pensiero debole? La strada fatta è dovuta essenzialmente all’indebolimento delle categorie ontologiche, cioè delle forme di giudizio, quelle attraverso cui noi valutiamo e percepiamo la realtà. Il tempo, che tutto consuma, ha consumato anche alcune categorie; quindi i nostri schemi mentali si sono in qualche modo usurati, le maglie della rete che ci imbrigliava la mente si sono allentate, permettendo al nuovo di filtrare all’interno. Un tempo c’erano descrizioni minuziose sull’aspetto e il comportamento di una strega, perché la “strega” era una figura REALE. Oggi la concretezza di quest’immagine è sfumata e la parola “strega” viene assunta solo a titolo metaforico. Anche i paradigmi di definizione delle cose, come la realtà del resto, sono vincolati ad un contesto storico-culturale. Questo è un esempio di come siamo noi, con le nostre categorizzazioni a costruire la realtà; e di come nessuna verità possa essere assoluta: non c’è una verità atemporale. Ora, messo di fronte a tutta questa incertezza, qualcuno potrebbe pensare che il pensiero debole sia solo destabilizzante. Destabilizzante lo è, ma è solo il punto di partenza per la costruzione di una maturità nuova, di una maggior consapevolezza dei limiti e delle potenzialità proprie e altrui. Bisogna prima scardinare il vecchio per poi ricostruire il nuovo. Il pensiero debole potrebbe racchiudere una “teoria forte” del pensiero come emancipazione: essere consapevoli della relatività dei propri valori spinge a mettersi in gioco, a cercare dentro di sé nuove verità, a confrontarsi con gli altri per scoprire realtà sconosciute, altre dalla propria. Il pensiero debole è utile perché apre la mente, spinge a contemplare -se non ad accettare- stili di vita e scale di valori diverse. Al contrario il pensiero forte chiude la mente, impedisce il cambiamento, impone idee preconfezionate. Chi si mette in discussione ed è disposto ad ascoltare gli altri è un pensatore debole. Chi cerca di smantellare i muri che ha dentro è un pensatore debole. Ammettere che la propria verità sia circoscritta e relativa non vuol dire annullarne il valore. Qui sta la forza del pensiero debole, che si configura come consapevolezza matura delle proprie scelte. L’importante è riconoscere che la scelta della verità non è mai puramente oggettiva, ma deve sottostare a determinate premesse, quelle contenute nella situazione in cui mi muovo. E proprio perché non può essere completamente oggettiva non può essere nemmeno assoluta: tuttavia è l’unica verità che posso attuare e per questo è valida. Si potrebbe estendere il discorso all’intera società: le leggi come tali sono modi di organizzarla, sono costruite dagli uomini e proprio per questo sono arbitrarie; non sono “di natura”. Tuttavia è innegabile che per vivere bene servano delle regole: quindi gli appartenenti ad una società si accorderanno per condividere determinate leggi che saranno per loro la verità. Quello che conta è saper riconoscere che quelle leggi sono la nostra verità e non “La Verità”. Il pensiero debole è quindi uno straordinario strumento emancipativo: dobbiamo sfruttarlo, usarlo a nostro favore, per il nostro arricchimento personale e sociale. L’incertezza non deve paralizzarci, deve essere una molla propulsiva. Solo così dal dubbio potremo fortificare le nostre fondamenta*”. In quest’ottica l’esempio di Vali Myers e Gianni Menichetti che con la loro vita ci hanno mostrato che stili di vita e scale di valori diverse non sono solo contemplabili ma praticabili rappresentano un patrimonio socio-antropologico prezioso per le nostre comunità.

A cura di Luigi De Rosa

Alla Chernetska, critica d’arte e giornalista

Gianni Vattimo, filosofo e politico