A quaranta anni dalla Legge n.184/ 83 torniamo a parlare di affidamento familiare.

22 gennaio 2024 | 10:06
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A quaranta anni dalla Legge n.184/ 83 torniamo a parlare di affidamento familiare.
A quaranta anni dalla Legge n.184/ 83 torniamo a parlare di affidamento familiare.
A quaranta anni dalla Legge n.184/ 83 torniamo a parlare di affidamento familiare.
A quaranta anni dalla Legge n.184/ 83 torniamo a parlare di affidamento familiare.
A quaranta anni dalla Legge n.184/ 83 torniamo a parlare di affidamento familiare.

Il 20 gennaio è svolto uno dei più importanti convegni organizzati dal comune di Salerno, presso la sala consiliare, Salone dei Marmi, dal titolo “L’Affido Familiare allo Specchio: quali sfide per quale futuro?” Hanno partecipato esponenti illustri provenienti da tutta la Regione Campania e oltre (Emilia-Romagna; Piemonte; Toscana): Andreina Barnabò, responsabile sportello Prossimità comune di Salerno; Vincenzo De Luca Presidente Regione Campania; Vincenzo Napoli, Sindaco Comune di Salerno; Carla Garlatti, Garante nazionale Infanzia e Adolescenza; Paola De Roberto, Assessore Politiche Sociali Comune di Salerno; Giovanni Galano, Garante infanzia e adolescenza regione Campania; Gaetano Paolino Presidente Ordine Avvocati Regione Campania; Bruno de Filippis, Magistrato; Piero Avallone, Presidente Tribunale Minorenni Salerno; Vincenzo Starita, Vicepresidente Commissione Adozioni Internazionali; Virgilio D’Antonio, Professore Diritto Privato Comparato presso l’Università di Salerno; Raffaella Pregliasco, Ricercatrice presso l’Istituto innocenti di Firenze; Paolina Pistacchi, psicologa e ricercatrice Istituto Innocenti Firenze; Ibrahim Ture, testimonianza diretta di un affidamento di minore straniero in una famiglia italiana; Pietro Rescigno Vicario Giudiziale del Tribunale Ecclesiastico Salerno; Giuseppe Bonino, responsabile UdP ambito S5; Valter Martini, Tavolo Nazionale Affido, Gianfranco Macrì Professore Diritto Interculturale Università Salerno; Veronica Lucchina, responsabile servizio minori e famiglia città di Torino; Barbara Mauri, Direttore Con I.S.A Val di Susa; Chiara Labanti, Assistente Sociale e coordinatrice Centro per le Famiglie comune di Bologna; Gigliola Amaranti, psicologa, coordinatrice Centro Adozione del comune di Bologna; Sabrina Cavini Benedetti, responsabile Centro Affidi comune di Firenze; Elena Bianco, Cooperativa il Girasole di Firenze; Giovanna Genovese, Responsabile Centro Affidi e Adozione Ambito S5; Francesca Scariati, Assistente Sociale SAAT ambito S5; Chiara Civera, psicologa SAAT ambito S5; Convegno curato e organizzato dallo Sportello Salerno Prossimità.
I temi affrontati in questa lunga, ma fruttuosa giornata, sono stati davvero tanti e non basterebbero dieci pagine per descriverli, seppur sommariamente, in un articolo. Questo è il motivo per cui affronteremo insieme solamente alcuni aspetti salienti sui quali, a quarant’anni dalla legge n. 184 (del 1983 e successive modifiche), c’è ancora tanto da fare e riflettere.
Innanzitutto è bene ricordare che l’affidamento familiare è molto differente dall’adozione: non si crea un rapporto di filiazione ed ha una temporaneità, cioè un inizio ed una fine ben chiari ed è l’istituto attraverso il quale una famiglia, detta appunto affidataria, accoglie uno o più bambini, il cui nucleo familiare d’origine si trova in una condizione di fragilità momentanea, per la quale si prospettano una serie di interventi, a cura delle istituzioni preposte (primo fra tutti il Servizio Sociale professionale del territorio) che mettono in atto azioni finalizzate a riassestare le aree disfunzionali attraverso un processo particolare detto processo d’aiuto.. A quel punto il bambino, affidato alla famiglia accogliente, dovrebbe rientrare nel nucleo originario. Detta così sembra davvero una cosa semplice e alquanto facile da applicare. Ma non è poi propriamente tutto lineare ciò che accade nella realtà. L’Istituto dell’affidamento familiare, inteso come strumento di coesione sociale e espressione di solidarietà, porta con se ancora alcuni nodi cruciali che in tutti questi anni, nonostante le numerose modifiche apportate alla legislazione, non ultima la legge Cartabia (ar. 5 bis), non pare abbiano trovato ancora una quadra funzionale e proficua, nel nome del “superiore interesse del minore a vivere nella propria famiglia”. I punti fondamentali, che ancora appaiono da rivedere, riguardano soprattutto la grave lacuna organizzativa delle istituzioni locali e regionali, deputate ad intercettare per tempo le situazioni di disagio intrafamiliare, che spesso determinano interventi tardivi e quindi poco risolutivi. Io direi, in realtà, che dobbiamo partire da molto più lontano, innanzitutto ammettere che, se da un lato è difficile cogliere preventivamente i disagi, che si possono manifestare all’interno di un nucleo familiare, dall’altro lato è anche tanto difficile trovare famiglie pronte e soprattutto preparate, ad accogliere dei bambini o dei ragazzi in difficoltà. L’affidamento familiare prevede, per sua natura, infatti, che i rapporti e le relazioni tra i membri che partecipano al progetto, siano curati e tutelati, visto il fine ultimo del rientro del minore presso la propria famiglia. Beh di affidatari disposti ad avere a che fare con tutta questa situazione complessa io in tanti anni di lavoro ne ho visti davvero pochi. Ma allora le potenziali famiglie affidatarie non ci sono? Beh anche qui ci sbagliamo, in realtà credo che ce ne siano tante, ma credo anche che siano spaventate dal fatto di non sapere come gestire un sacco di cose e abbiano mille domande, che spesso restano trascurate dalle istituzioni deputate a rispondere. Come a voler dire: io sarei anche disponibile ma poi? Se abbiamo un problema con il bambino o peggio con l’adolescente, chi ci aiuta nell’immediato? E se abbiamo un problema con la famiglia naturale? E se non riusciamo a gestire il fatto di dover poi lasciar andare via quel ragazzo che per un bel periodo è stato con noi? Chi ci aiuta? E altre mille domande e preoccupazioni che tutti ci stiamo facendo se ci sentiamo, per un attimo, tirati in causa.
Per questo motivo sono stati interpellate tante tipologie di professionalità differenti, che hanno dato modo di ascoltare numerosi interventi autorevoli. Si è parlato di formazione delle famiglie; di tavoli permanenti di monitoraggio e sostengo; di procedure di certificazione qualità da rilasciare agli enti formatori; di risorse economiche insufficienti; dell’affidamento dei minori stranieri, che diventa un problema nel problema; di continuità affettiva; di genitore d’intenzione; dei tutori volontari; di una maggiore sinergia tra l’ordine degli avvocati e l’ordine degli Assistenti -sociali; del progetto P.I.P.P.I.; di solidarietà sociale (art2 Cost.); c’è chi ha ricordato i vecchi tempi nei quali regnava la regola del buon vicinato; chi ha ricordato l’art 28 (ma questo è un altro argomento di cui vi parlerò per tempo) e tante, tantissime altre importanti riflessioni sui valori posti alla base del nostro ordinamento giuridico-giusnaturalistico, che, ribadisco, sarebbe impossibile affrontare con la dovuta importanza che meritano.
In breve però, posso citare le criticità che sono emerse: prima fra tutte è la necessità di creare un percorso di affiancamento alle famiglie affidatarie (prima, durante e dopo l’accoglienza di un bambino) e percorsi di sostegno per le famiglie d’origine in cui sono ricompresi i figli ovviamente, che sono al centro del dibattito in questione. Rileggere “l’interesse superiore del minore” come diritto da rispettare sempre e prioritariamente, non solo quando parliamo di affidamento familiare, significa affrontare questo tema in chiave evolutiva. Le persone, in quanto tali, evolvono e cambiano nel rispetto del ciclo di vita naturale, ma nel percorso di integrazione che, non può prescindere mai dalle differenze, esse diventano parte integrante di crescita su tutti i livelli e per tuti i soggetti coinvolti. La famiglia accogliente cresce, il bambino cresce la famiglia naturale cresce. Nel progetto di affidamento tutti evolvono ma non più singolarmente, piuttosto le risorse devono imparare ad integrarsi. Non meno importante è la necessità di sviluppare una identità prossimale di vicinanza, che ritengo sia la vera sfida del futuro. Dove ogni famiglia possa tornare ad essere capace di affidarsi e affidare le proprie difficoltà e risorse all’altro senza pregiudizio, dando valore alla dimensione affettiva dei legami, che diviene il cuore dell’azione di cura e sostegno, dare valore ai rapporti (e non solo a quelli di sangue) che si instaurano, in un’ottica nella quale le relazioni aggiungono e non tolgono. Il bambino è portatore di una storia che deve essere accettata e le relazioni che porta con se hanno contribuito a creare ciò che è oggi e la sua identità. Per questo è fondamentale pensare di riorganizzare la vita di tutti i soggetti coinvolti in relazione alla nuova situazione. Sorge, infine, la necessità di promuovere le “Buone Prassi” dell’affidamento familiare tra le pieghe dell’evoluzione sociale, per eliminare finalmente le pratiche sterili e disfunzionali e creare azioni nuove, adattive e adattabili, ognuna al caso specifico e alle situazioni considerate, per natura, in trasformazione.
Tutto questo mi ha riportato alla mente il concetto di “Comunità Educante”, tanto caro a me e ai mei colleghi, dove il tessuto sociale di un territorio, con il suo bagaglio valoriale, culturale, risorse e “miserie” viene sostenuto dal suo interno con azioni volte ad elaborare una progettualità territoriale per il bene comune partendo proprio dalle relazioni tra i membri. Per creare reti di comunità, però, (e questo ce lo insegnano) non si può di certo improvvisare. È necessario, dunque, che tutti gli operatori sociali, le reti locali, attraverso una forte azione di advocacy territoriale, possano intercettare la relativa distribuzione delle risorse umane coinvolte (e non solo) e realizzare attività di co-progettazione. Per questo mi rivolgo agli amministratori locali affinché, portatori di una politica di prossimità sociale, possano mettere in campo forze e risorse adeguate e soprattutto stabili, non improvvisate, di promozione e sostegno a questa importante risorsa che evita, in primis, l’istituzionalizzazione dei nostri ragazzi. Tutti oramai sappiamo, infatti, che solo attraverso un lavoro di costruzione di un tessuto sociale di sussidiarietà e quindi di connessione e integrazione tra servizi e persone che dialogano e che possono fungere da supporto, (servizi pubblici, privati e del privato sociale, nonché la comunità tutta delle famiglie coinvolte e non), riusciremo a realizzare azioni di contrasto alla povertà educativa ed investire nelle nuove generazioni.
Assistente Sociale Marianna D.C.