Premio al libro più vendibile a Napoli: vince “A schiovere” di Erri De Luca

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Primi giorni dell’anno: il tempo dei bilanci, ma anche quello dei riconoscimenti letterari. Le pagine culturali con le loro penne migliori si affannano nell’attribuire il premio di migliore libro dell’anno: conta in questo riconoscimento incidentale soprattutto il gusto di chi premia. Ma se consideriamo il libro migliore dell’anno per qualità, letterarietà, prezzo, accessibilità ad un pubblico sempre più largo, facilità anche di farlo acquistare a chi nelle librerie ancora va senza farsi tentare dal mostro Amazon, ma è invece aperto al consiglio dell’esperto lettore che sta in strada? Ad un premio del genere hanno pensato due librai napoletani – Raimondo di Maio e suo figlio Giancarlo che gestiscono la didima “Dante&Descartes – e siamo già giunti alla quarta edizione.  In principio fu Generoso Picone con il suo reportage-memoriale sul Terremoto dell’Irpinia “Paesaggio con rovine (Mondadori)”; poi fu la volta della scrittrice spagnola Irene Vallejo con il suo “Papyrus. L’infinito in un giunco (Bompiani)” nella traduzione di Monica Bedana, una storia dei libri e del loro viaggio dal mondo antico ai giorni nostri. Poi il meraviglioso romanzo di Titti Marrone – “Se solo il mio cuore fosse di pietra (Feltrinelli)” viaggio nella memoria di una cura verso i bambini salvati dall’orrore, libro che ha messo d’accordo lettori, critica e premi (Premio Napoli 2022).  Quest’anno i due librai militanti – dopo avere fatto il conto delle copie: ben 300 – hanno assegnato questo riconoscimento-risultato alla raccolta spiegata di lemmi partenopei “A schiovere, Vocabolario napoletano di effetti personali – (pagg. 224, euro 19; Feltrinelli)” dello scrittore-amico Erri De Luca: Parole come Allucco, ammappuciato, Arèto, e la desueta Arrassusia, trovano una propria personale definizione, insieme a locuzioni come ‘A copp’ abbascio.  All’intrasatto, Pe’ tramente, Per’ ‘e vruoccolo, Perchipétola e papurchio. De Luca riesce a coglierne significati propri e altri mediati accedendo al linguaggio della memoria personale, familiare e collettiva: sempre avvertendo il lettore della indeterminatezza dell’espressività di ognuna, lasciata come spesso accade a Napoli alla situazione sostanziale ed alla voce personale dell’orante di turno. La formula di quest’incantesimo che sono le parole dialettali di un popolo emigrante come quello partenopeo? È quella che in suo racconto – “Requiem per il campanaro (l’ancora del mediterraneo)” –  sintetizzava un napoletano di adozione – emigrante di guerra – come Gustaw Herling “nessuno può competere con la creatività del popolo”.

Vincenzo Aiello

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