Con Shobeyro di Mahmud Dowlatabadi, traduzione di Luciano Mastrogiacomo
“Sono diventata come una carta usata che è stata sgualcita e gettata nella spazzatura”. Mahmud Dowlatabadi
Meta (NA) Il 9 febbraio, con inizio alle ore 18.00, presso la Sala consiliare della Casa comunale sarà presentato il romanzo Ba Shobeyro (Con Shobeyro) dello scrittore iraniano Mahmud Dowlatabadi per le Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli, collana diretta dal dottor Roberto Pasanisi. Ancora una volta l’iranista e arabista, Luciano Mastrogiacomo, che in precedenza aveva tradotto dall’arabo “Il cuore della notte” opera del Premio Nobel per la Letteratura (1988), lo scrittore egiziano Nagib Mahfuz (1911 – 2006) ci permette di godere dell’arte di un altro noto aurore mediorientale, questa volta di ambiente persiano Mahmud Dowlatabadi, classe 1940, che con Kader Abdolah, Azar Nafisi, Marjane Satrapi, Shirin Ebadi e Bijan Zarmandili, ben rappresenta l’espressione più convincente e interessante della letteratura iraniana contemporanea. Mahmoud Dowlatabadi è nato a Sabzevar villaggio sito nella parte nord-occidentale della provincia del Khorasan, in Iran. Di umili origini, fin dal banbino fu costretto a lavorare per sopravvivere e appena adolescente si aprì un negozio di barbiere. Un pomeriggio, lui stesso lo racconta in una delle sue prime interviste, “si ritrovò irrimediabilmente annoiato”. Chiuse il negozio, diede le chiavi a un ragazzo e gli disse di dire a suo padre: “Mahmoud se ne è andato”. Si trasferì così a Teheran dove lavorò come: calzolaio (mestiere appreso dal padre), quindi ancora barbiere, riparatore di biciclette, street barker, operaio in una fabbrica di cotone e raccoglitore di biglietti del cinema per almeno un anno, prima di poter mettere insieme la somma giusta per pagarsi le lezioni di teatro, in seguito si cimentò nel giornalismo, nella scrittura di romanzi e nelle sceneggiature avendo come “idoli” gli occidentali Brecht, Arthur Miller e naturalmente il conterraneo Bahram Beyzai. Nel 1974 fu arrestato dal Savak, la polizia segreta dello Shah; i suoi scritti, infatti, avevano attirato l’attenzione della polizia locale. Quando chiese ai poliziotti che lo arrestavano quale fosse il suo crimine, gli dissero: “Niente, ma tutti quelli che arrestiamo sembrano avere copie dei tuoi romanzi in modo che ti renda provocatoria per i rivoluzionari“. Critico verso lo sfruttamento delle risorse petrolifere da parte degli inglesi e dell’operato dello scià di Persia, ebbe un rapporto non meno complicato con il regime degli ayatollah giacché si è sempre battuto per la libertà di espressione, che ad ogni artista deve essere garantita. Della sua vasta bibliografia meritano menzione il colossale “Kelidar” opera, che consta di ben dieci libri, sull’epopea di una famiglia kurda, “Missing Soluch”, romanzo ispiratogli da sua madre, scritto durante la prigionia, “The Colonel”, ancora un atto d’accusa al regime dello Shah e “Thirst” romanzo ambientato durante la guerra Iran-Iraq (1980-1988). “Se avessi saputo che l’amore è così pericoloso/non mi sarei innamorata/Se avessi saputo che il mare è così profondo/non sarei mai andata a nuotare/Se avessi immaginato la fine non avrei mai iniziato/Ho nostalgia di te/Insegnami a non averla/Insegnami come estirpare le radici di questo amore profondo/Insegnami come muore la lacrima sul viso/Se sei un profeta/liberami da questo incantesimo” questi sono versi del poeta siriano Nizar Qabbani, tratti da “Lettera da sotto il mare”, mi sono venuti in mente alla fine della lettura di questo romanzo perché sembrano riassumere alla perfezione il personaggio che più mi ha colpito di questa novella, Helle, che è l’icona della donna iraniana, che in una società “ferocemente” patriarcale cerca di difendere la propria dignità. E se il fratello maggiore ‘Obeyd e il suo primo marito Habib Yasin rappresentato la parte più cinica e oscurantista di questo contesto sociale, gli altri personaggi, suo fratello minore Jasem e il suo secondo marito Khadu offrono a lei e a noi lettori la speranza che ci sia ancora una speranza. non tutto è ancora perduto. Shobeyro, invece, il personaggio che da titolo all’opera, mi ricorda una delle Moire, Làchesi, colei che decide, anzi nel suo caso, colui che assiste “impotente” al destino di tutti. Naturalmente la mia è una lettura partigiana, occidentale, di quanto narrato da Dowlatabadi, ho letto questo romanzo con gli occhi di un europeo di fede cattolica, che tante sottigliezze non sa cogliere, anche se dal punto di vista squisitamente tecnico l’ho trovato molto ben costruito, scorrevole e se mi permettete l’azzardo, artisticamente vicino alla narrativa dei vinti di Verga e alla poetica di Pasolini, penso ad Alì dagli occhi azzurri, per intenderci. Sarà dunque ancora più interessante quanto potranno raccontarci lo stesso Luciano Mastrogiacomo e il relatore Eugenio Lorenzano ospiti del Comune di Meta che apre con quest’evento una finestra sulla cultura iraniana di grande interesse. A cura di Luigi De Rosa
Link utili: https://www.istitalianodicultura.org/
Luciano Mastrogiacomo, iranista e arabista (Ph. by Il Mattino di Napoli)