Il discorso di Piero Calamandrei a Forlì sulla Resistenza in occasione della Celebrazione del decennale della resistenza, il 25 aprile 1955

25 aprile 2024 | 09:14
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Il discorso di Piero Calamandrei a Forlì sulla Resistenza in occasione della Celebrazione del decennale della resistenza, il 25 aprile 1955

Il discorso di Piero Calamandrei a Forlì sulla Resistenza in occasione della Celebrazione del decennale della resistenza, il 25 aprile 1955. Oggi ha un significato particolare dopo due anni di Pandemia da Covid, con Stato di emergenza, ora con la guerra Russia Ucraina, e altro Stato di Emergenza, bisognerebbe leggerlo in tutte le scuole

Se si vuole intendere che cosa fu la Resistenza, non si deve dar questo nome soltanto al periodo finale che va dall’8 settembre al 25 aprile. Questo fu il parossismo finale della lotta; ma l’inizio di essa risaliva a venticinque anni prima. …la Resistenza era cominciata fin da quando lo squadrismo fascista aveva iniziato per le vie d’Italia la caccia all’uomo.

Delle cause e degli aspetti del fascismo, storici di diverse tendenze hanno già dato svariate interpretazioni: e hanno messo in evidenza, secondo le premesse politiche o filosofiche da cui partivano, i fattori psicologici e morali e quelli sociali ed economici di questa crisi: L’esasperazione contingente del primo dopoguerra, o le lontane tare tradizionali di servaggio e di conformismo, che tenta di sbarrare il cammino alle nuove forze progressiste che avanzano. Forse in ognuna di queste concezioni c’è una parte di vero.

Ma ciò che soprattutto va messo in evidenza del fascismo è, secondo me, il significato morale: l’insulto sistematico, adoprato come metodo di governo, alla dignità morale dell’uomo: l’umiliazione brutale, ostentata come una gesta da tramandare ai posteri, dell’uomo degradato a cosa.

Un cammino di millenni, muovendo dalla filosofia e dalla poesia greca e dal Cristianesimo, era riuscito in Europa a porre a base della convivenza dei popoli civili il principio della uguaglianza di tutti gli uomini. Questa esigenza, che fu il fermento della Rivoluzione francese, era già viva e operante nell’illuminismo del ‘700: e il nostro Beccaria la enunciava in parole lapidarie, quando scriveva: “Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”.

Ora il fascismo fu la rinnegazione di questa esigenza. Per la bestiale ferocia dello squadrismo fascista, l’uomo tornò ad essere una cosa: non solo oggetto di sfruttamento servile, come una bestia da tiro, per i padroni finanziatori delle spedizioni punitive, ma oggetto di beffa sanguinaria e di straziante dileggio da parte dei sicari. Il ritorno della tortura, la quale pareva ormai soltanto un fosco ricordo di età barbare felicemente superate, comincia da qui. Nel manganello e nell’olio di ricino c’erano già quei primi micidiali germi del flagello, che venti anni dopo, sviluppati fino alle loro spaventose conseguenze dalla gelida consequenziarietà teutonica, dovevano fatalmente portare allo sterminio scientifico delle camere a gas. Nel macabro cerimoniale in cui gli incamiciati di nero, preceduti dai loro osceni gagliardetti, andavano solennemente a spezzare i denti di un sovversivo o a verniciargli la barba o a somministrargli, tra sconce risa, la purga ammonitrice, c’era già, ostentata come un programma di dominio, la negazione della persona umana. Il primo passo, la rottura di una conquista millenaria, fu quello: il resto doveva fatalmente venire.

Ma fino da allora cominciò la Resistenza: contro l’oppressione fascista che voleva ridurre l’uomo a cosa, l’antifascismo significò la Resistenza della persona umana che si rifiutava di diventare cosa e voleva restare persona: e voleva che tutti gli uomini restassero persone: e sentiva che bastava offendere in un uomo questa dignità della persona, perché nello stesso tempo in tutti gli altri uomini questa stessa dignità rimanesse umiliata e ferita.

Cominciò così, quando, il fascismo si fu impadronito dello Stato, la Resistenza, che durò venti anni. Il ventennio fascista non fu, come oggi qualche sciagurato immemore figura di credere, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale: fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione civile. Non si combatteva più sulle piazze, dove gli squadristi avevano ormai bruciato ogni simbolo di libertà, ma si resisteva in segreto, nelle tipografie clandestine dalle quali fino dal 1925 cominciarono ad uscire i primi foglietti alla macchia, nelle guardine della polizia, nell’aula del Tribunale speciale, nelle prigioni, tra i confinati, tra i reclusi, tra i fuorusciti. E ogni tanto in quella lotta sorda c’era un caduto, il cui nome risuonava in quella silenziosa oppressione come una voce fraterna, che nel dire addio rincuorava i superstiti a continuare: Matteotti, Amendola, don Minzoni, Gobetti, Rosselli, Gramsci, Trentin. Venti anni di resistenza sorda: ma era resistenza anche quella: e forse la più difficile, la più dura e la più sconsolata.

Vent’anni: e alla fine la guerra partigiana scoppio come una miracolosa esplosione. Lo storico che fra 100 anni studierà a distanza le vicende di questo periodo, narrerà la guerra di liberazione come una guerra che durò 25 anni, dal 1920 al 1945 , e ricorderà che la sfida lanciata dagli squadristi nel 1920 fu raccolta e definitivamente stroncata dai partigiani nel 1945. E il 25 aprile finalmente i vecchi conti col fascismo furono saldati: e la partita conclusa per sempre.

Nella concezione fascista, come in quella di tutti i totalitarismi, viveva questo residuo di goffo e tracotante feudalesimo: il germe del razzismo è qui: l’idea di una classe eletta, composta di privilegiati, di gerarchi, di superuomini che hanno diritto di governare gli Stati perché la Provvidenza li ha fatti così, E perché questa distinzione tra poveri e ricchi, tra padroni e servitori sarebbe una fatale distinzione voluta da Dio. Contro questa concezione feudale e totalitaria della società, che il fascismo per vent’anni riportò in vigore tra noi, la Resistenza sorse a rivendicare per tutti gli uomini uguale dignità sociale. La libertà non è una merce di lusso riservata ai ricchi, la cultura non è una raffinata droga che cosiddetti intellettuali posso consumare nelle lussuose alcove delle loro torri d’Avorio. In realtà la cultura, ridotta sotto il fascismo ad uno sterile giuoco di cortigiani, non ha ragion d’essere se non è espressione di popolo, di una consapevolezza di questa condizione umana che è comune a tutti gli uomini: espressione di una comune solidarietà sociale ed umana.

Ora, vedete, amici, della verità di questa concezione sociale così ricca, la resistenza fu la prova più eloquente. Anche senza saperlo quegli uomini che durante il ventennio si erano sacrificati per resistere al fascismo, e che durante gli ultimi due anni erano accorsi da tutti i ceti e da tutti i centri, dagli atenei e dalle officine, dai casali di campagna e dalle case cittadine, dalle caserme e dai conventi a rincontrarsi in montagna per far la guerra al fascista e al tedesco, obbedirono nel loro cuore a questo binomio: giustizia e libertà. Volevano la libertà per sé, ma volevano la libertà per tutti: sentivano che la libertà non può esservi per nessuno in una società dove non è garantita a tutti la ugual dignità sociale ed economica, cioè la giustizia.

È stato detto, e forse si è detto il vero, che il primo Risorgimento italiano, quello che portò l’Italia ad essere una nazione indipendente ed un popolo unito, ho fatto per virtù dei soli ceti colti , intellettuali, dei cosiddetti “borghesi”, e che le classi lavoratrici, gli operai i contadini, restarono estranei ai moti rivoluzionari, esclusivamente politici e non sociali, da cui nacque l’unità d’Italia.

Ma la grande, la consolante novità della Resistenza, di questo che giustamente è stato detto il secondo Risorgimento d’Italia, è consistita proprio in ciò: che essa fu veramente un moto, un accorrere spontaneo di popolo; non sono studenti e professionisti e uomini di cultura, ma anche, e forse più numerosi, lavoratori di quelle categorie che si sogliono chiamare manuali, operai e contadini, accorsero senza più distinzione di caste , ugualmente pronti a prodigare le loro vite e a versare insieme il loro sangue fraterno, per costruire una società migliore di quella che aveva permesso gli orrori del fascismo e delle persecuzioni razziali. Quando cominciò la guerra partigiana, il popolo sentì che quella non era la guerra dei ricchi, la “bella guerra” concepita come una specie di giuoco cavalleresco, alimentato dal nazionalismo appreso sui libri: quella era la redenzione di tutti, la riconquista della fratellanza umana, la protesta del civiltà contro la barbarie. Giustizia e libertà, per tutti gli uomini, per tutte le classi, per tutte le russe, per tutte le fedi. Nelle formazioni partigiane non c’era più distinzione di ceti: Il professore era accanto al contadino, il sacerdote era accanto all’operaio, l’italiano accanto al russo o all’americano. Spesso il comandante della formazione era un operaio e gli intellettuali erano tra i gregari…

Piero Calamandrei