Il pianista eseguirà stasera, nel Castello Giusso del Galdo, nella sua Sicignano, alle ore 21, il concerto in La minore op.54, con il quintetto d’archi Salerno classica di Francesco D’Arcangelo, in una serata promossa dal comune e dalla proloco del paese alburnino. Omaggio anche a Busoni nell’anno del centenario della morte
Di Olga Chieffi
Concerto di mezz’estate, questa sera, alle ore 21 nella corte del Castello Giusso del Galdo di Sicignano, ove ospite dell’ormai abituale appuntamento organizzato dall’amministrazione comunale e dalla proloco del paese alburnino, saranno il pianista Costantino Catena e l’Ensemble Salerno Classica, composta da Ilario Ruopolo e Selene Pedicini al violino, Piero massa alla viola, Francesco D’Arcangelo al violoncello e Vincenzo Conte al contrabbasso. Il concerto principierà con il quartetto per archi n°1 in Do Maggiore op.19 BV 208, composto da Ferruccio Busoni, una doverosa celebrazione del centenario della scomparsa del compositore e pianista toscano, quest’ anno, purtroppo, quasi del tutto oscurato dalla commemorazione del pari anniversario del conterraneo Giacomo Puccini. L’opera di Ferruccio Busoni, datata 1882 è dedicata a Julius Heller, violinista di origini ungherese, naturalizzato triestino e direttore dell’allora maggiore società cameristica e sinfonica della città, lo Schillerverein. Si potrebbe supporre che l’Op.19, coi suoi quattro movimenti tradizionali, sia formalmente vicina alla prima scuola viennese. Sarà un’infatuazione passeggera, tuttavia, perché Busoni già dall’anno precedente, con la Suite Sinfonica Op.25, aveva intrapreso un chiaro processo di avvicinamento inarrestabile alla musica antica. Ciò che il primo quartetto ufficiale manifesta in ogni caso è la sicurezza a livello di forma e stile, effetto più che evidente delle lezioni di Mayer e Graz. Il tema del movimento d’apertura, un Allegro moderato, patetico, ha un carattere quasi minaccioso, sostenuto dal pulsare degli archi bassi; nel finale la melodia si alleggerisce con sfumature un po’ eroiche. Il secondo movimento, l’Andante, è introdotto dalla viola che presenta un tema originale basato su una melodia popolare. Il terzo movimento non è il minuetto classico di Haydn o Mozart, ma evoca quello francese del periodo barocco. Il movimento finale inizia con un cupo Andante che sfocia in un Allegro con un tema principale energico e sincopato, mentre la sezione centrale presenta un breve tema lirico, derivato dall’Andante, che si dissolve in una fuga. “Il mio Concerto in la minore si divide in allegro affettuoso, andantino e rondò. I due ultimi brani vanno eseguiti senza interruzione; forse lei potrebbe indicarlo nel programma di sala”. Così scrisse Schumann a Mendelssohn, direttore alla Gewandhaus di Lipsia il 1° gennaio del 1846. Solista era la moglie del compositore, Clara, musicista eccellente e d’intelligenza sopraffina, con la quale era convolato alle agognate nozze nel 1840. Agli ultimi mesi del fidanzamento risaliva il progetto iniziale del suo unico concerto per pianoforte e orchestra, frutto, dunque, di un breve momento di serenità nell’esistenza di Schumann incorniciato fra la stesura del primo movimento, che deriva dalla Fantasia del 1841, e degli ultimi due, scritti nel 1845. Composto nel 1841, questo primo movimento del Concerto era forse stato concepito come brano autonomo, tipo Konzertstück di cui Robert Schumann darà esempi con l’op. 92 e l’op. 134. L’Allegro affettuoso iniziale si apre su di un brusco gesto del pianoforte che subito approda allo stupendo tema principale, sommesso e cantabile, si prosegue in uno stretto e accorato dialogo tra solista e orchestra, mentre, giunti al momento di esporre il secondo tema, riascoltiamo, sorpresi il primo trasposto al modo maggiore. La sezione di sviluppo è distinta in tre episodi, nell’andante espressivo rinveniamo l’assorta poesia di Eusebio, il secondo episodio allegro, ci riporta nel mondo materiale, della durezza e delle lotte ed ecco la spasmodica tensione di Florestano. Ed ecco la prima cadenza ove risuona la ancora la voce lontana che spalanca un modo di infinita pace, poi impetuosa esultanza, fino alla conclusione con il tema impreziosito da dolcissimi trilli. L’Intermezzo è un lirico monologo del pianoforte, quasi un’intima riflessione sui materiali melodici del primo movimento, nella cui parte centrale s’inserisce un ampio tema che passa dai violoncelli ai violini e ai clarinetti, interrotto e contradetto a più riprese dal solista. Nel tempo rapido conclusivo esplode la più incontenibile e fresca delle vitalità, addirittura a livelli di apoteosi, con la trasfigurazione eroica del primo tema dell’opera, con piglio deciso e squillante che rimanda ai toni del Quinto concerto beethoveniano. In realtà, ma solo a un’analisi che si sottragga dall’empito emotivamente trascinante di questi due movimenti, è possibile individuare un segno preciso degli anni che li separano da quel primo movimento: la presenza di un tessuto connettivo di elaborazioni tematiche tra i tre tempi, che rivelano la vicinanza con l’attività sinfonica di quegli anni, in cui Maestro Raro, nell’immaginario hoffmanniano la personificazione dell’abilità tecnica del musicista, insegnava pratiche di contrappunto e, nel nostro caso, abilità crescenti nelle elaborazioni e nelle variazioni delle figure tematiche.