Cittadinanza e nazionalità: riflessioni sul senso di appartenenza

22 settembre 2024 | 17:24
Cittadinanza e nazionalità: riflessioni sul senso di appartenenza

L’altra mattina, in un salone riccamente decorato del Palazzo dei Re Sardi, sede della Prefettura di Nizza, mia moglie ha partecipato a una cerimonia ufficiale per ricevere la cittadinanza francese. È stata una funzione istituzionale, solenne e simbolicamente ricca, alla presenza delle autorità cittadine dell’intero dipartimento delle Alpes Maritimes, del Prefetto e dei più alti rappresentanti locali della “Légion d’honneur” e della “Légion du mérite”. Il tutto si è svolto come un vero e proprio rito, scandito da diverse fasi ben precise, per una durata di circa tre ore.
La cerimonia è iniziata con l’inno nazionale, La Marsigliese, cantato in coro da tutti i presenti, rigorosamente in piedi, segno di rispetto e di adesione ai valori repubblicani.
Subito dopo, una giovane vice-prefetto, in alta uniforme, ha tenuto un discorso insigne che, con tono serio e composto, ha presentato il senso profondo dell’aderire alla République, nonché la gioia nell’accogliere quei nuovi cittadini francesi. Il rito è proseguito con la proiezione di un video che ripassava i valori fondamentali della Repubblica francese: libertà, uguaglianza, fraternità e laicità. Questi principi, rappresentati come pilastri irremovibili, sono stati rinnovati emblematicamente attraverso la cerimonia.
Poi, uno alla volta, i nuovi cittadini francesi sono stati chiamati per ricevere i documenti che attestano la loro “naturalizzazione”, un momento cruciale e personale per ciascuno. I nuovi cittadini del dipartimento erano diverse decine, rappresentanti di 40 nazionalità di origine, tra cui due italiane, mia moglie compresa, e almeno un paio di britannici, probabilmente naturalizzati a causa della Brexit. Il rito si è concluso con le foto di ciascun nuovo francese, accompagnate da applausi, suggellando il passaggio ufficiale alla nuova identità giuridica e simbolica.
È stato un momento toccante e significativo, che mi ha spinto a riflettere su alcuni concetti.
Innanzitutto, cos’è la cittadinanza? In termini antropologici, la cittadinanza rappresenta l’appartenenza attiva a una comunità politica. Essere cittadini significa godere di diritti civili, politici e sociali, ma anche assumersi dei doveri, come quelli fiscali e militari. La cittadinanza si configura come uno strumento fondamentale per la partecipazione civica, permettendo agli individui di prendere parte agli affari collettivi della loro società. Tuttavia, il concetto di cittadinanza si è evoluto nel tempo. Già dagli anni ’90, si sono sviluppati dibattiti su una possibile crisi di questo status, causata dal calo della partecipazione elettorale, dalla diminuzione del sindacalismo e, secondo alcuni, dalla perdita del senso civico.
Parallelamente, però, abbiamo assistito all’emergere di nuove forme di cittadinanza.
Espressioni come “cittadino imprenditore”, “cittadino consumatore” ed “eco-cittadinanza” testimoniano l’ampliamento di questo concetto al di fuori della sfera strettamente politica.
Queste nuove forme riflettono un’attualizzazione dei valori di responsabilità e impegno che, originariamente, la cittadinanza esprimeva. La sua attrazione risiede nell’idea rivoluzionaria introdotta in Francia: quella di una convivenza che ignori le differenze sociali, etniche e religiose, promuovendo così una comunità di eguali.
Tuttavia, la crescente complessità delle società moderne, arricchite da ondate migratorie, ha reso questo ideale più difficile da mantenere. La cittadinanza si trova oggi di fronte a nuove sfide: da un lato, la necessità di riconoscere i diritti culturali accanto ai diritti civili, politici e sociali; dall’altro, la tensione tra il concetto tradizionale di cittadinanza nazionale e l’emergere di forme transnazionali e sovranazionali di appartenenza, come la cittadinanza europea o la cittadinanza globale espressa nei movimenti anti-globalizzazione.
In questo senso, la cittadinanza non è un concetto statico, ma uno spazio in cui si negoziano diritti, doveri e identità. È un processo dinamico, che può essere vissuto sia dall’alto, attraverso l’applicazione istituzionale, sia dal basso, attraverso l’esperienza quotidiana dei cittadini comuni. Ecco perché è sempre più urgente – almeno in Italia – una
revisione del processo di attribuzione della cittadinanza ai figli degli immigrati.
Storicamente, questo attributo è legato a diversi criteri giuridici che definiscono chi ha il diritto di essere riconosciuto come cittadino di uno Stato, come ad esempio “ius sanguinis” (diritto di sangue), “ius soli” (diritto del suolo) e “ius scholae” (o “ius culturae) (diritto legato alla formazione).
Lo “ius sanguinis” si basa sulla discendenza: la cittadinanza è trasmessa per linea di sangue, mantenendo così un legame stretto con l’identità familiare e nazionale. Sebbene storicamente diffuso in molti paesi, tra cui l’Italia, ritengo che questo principio sia ormai anacronistico. In una società globale e multiculturale come quella attuale, dove l’immigrazione ha un impatto significativo, soprattutto in Europa, è fondamentale ripensare il modello di acquisizione della cittadinanza per renderlo più adeguato alle nuove realtà.
Lo “ius soli”, invece, incentrato sul luogo di nascita, riconosce come cittadini coloro che nascono sul territorio di un determinato Stato, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori, come accade negli Stati Uniti o in Brasile. Questo approccio mira a una maggiore inclusività, permettendo a chi cresce in un paese di sentirsi parte integrante della comunità.
In questo contesto, lo “ius scholae” (o “ius culturae”) è un concetto che si sta affermando come una via intermedia, secondo cui i figli degli immigrati che frequentano le scuole in un paese possono acquisirne la cittadinanza in modo quasi automatico. Tale modello pone l’accento sul processo educativo e culturale, valorizzando l’integrazione attraverso la formazione. L’acquisizione della cittadinanza avviene non solo perché si è nati su un determinato territorio, ma perché si è partecipi della vita e delle istituzioni educative di quel paese.
Personalmente, considero cruciale rinnovare la legislazione italiana in materia di cittadinanza attraverso un approccio che combini “ius soli” e “ius scholae”. Tale sistema misto consentirebbe una reale integrazione di centinaia di migliaia di “nuovi italiani”, garantendo che coloro che nascono e crescono in Italia, partecipando attivamente alla sua cultura e sistema educativo, possano essere riconosciuti come cittadini a pieno titolo.
Questo sarebbe un passo fondamentale verso un’idea più inclusiva e moderna di cittadinanza.
Questa riflessione ci porta istintivamente a esplorare il concetto di nazionalità, un’idea che ha preso forma soprattutto nel XIX secolo e che ancora oggi influenza la nostra visione del mondo. Se la cittadinanza riguarda l’appartenenza attiva a una comunità politica attraverso diritti e doveri, la nazionalità è legata a un sentimento di appartenenza culturale, storica e linguistica a una nazione. È un’idea che si sviluppa parallelamente al risveglio delle nazionalità in Europa, soprattutto durante l’Ottocento, quando il desiderio di unificare i territori frammentati portò alla nascita di Stati-nazione come Germania e Italia.
La nazionalità, a differenza della cittadinanza, ha una dimensione più identitaria, basata su elementi etnici, linguistici e culturali. In molti casi, la nazionalità è stata associata alla creazione di miti fondativi e alla ricostruzione di una “memoria nazionale”, spesso arricchita da simboli, eroi e racconti epici che legittimano l’unità di un popolo. Gli intellettuali, i musicisti, e i filosofi del XIX secolo parteciparono attivamente a questo processo, fornendo alla nazione un’immagine che trascendeva la politica per diventare un’esperienza culturale condivisa. Richard Wagner in Germania, Giuseppe Verdi in Italia, e Frédéric Chopin in Polonia, con le loro opere, divennero emblemi di questo slancio nazionalista.
La costruzione della nazionalità non è stata uniforme. Due concezioni principali si sono contrapposte: una statalista, in cui lo Stato precede e forgia la nazione, e una etnica, in cui la nazione emerge dalla lotta per l’indipendenza delle élite culturali e politiche, spesso in assenza di uno Stato strutturato. Questa seconda forma di nazionalismo è stata particolarmente forte nelle regioni dell’Europa orientale e durante i processi di decolonizzazione in Africa e Asia.
Oggi, però, la riflessione sulla nazionalità è cambiata, e il concetto ha subito una graduale erosione a causa della globalizzazione e delle migrazioni. La nazionalità si è sempre più dissociata dai confini statali rigidi del passato, e nuove forme di appartenenza, come la cittadinanza sovranazionale dell’Unione Europea, mostrano come le identità moderne siano più fluide e complesse. In altre parole, l’identità – personale e collettiva – è un processo senza fine, una costruzione continua che ha portato la stessa nozione di etnicità ad essere considerata, oggi, molto più sfumata e complessa (e la affronterò più adeguatamente in un prossimo articolo).
Per concludere, ricordo che da piccolo mi colpiva una domanda che mia nonna poneva alle nuove persone che conosceva, magari i miei coetanei che venivano a casa a studiare dopo la scuola: “Tu a chi appartieni?”, chiedeva loro. Quell’interrogativo racchiude una verità profonda che spesso sfugge nella contemporaneità, specialmente in una società sempre più mobile e cosmopolita. Da ragazzi è facile pensare che si appartenga solo a se stessi – per questo si può provare addirittura una forma di claustrofobia nei confronti dei parenti o del proprio villaggio – ma crescendo e studiando si comprende che ognuno di noi è inscritto in una rete di relazioni, di tradizioni e di luoghi che ci definiscono, volenti o nolenti. Apparteniamo a una famiglia, a una comunità, a una storia, anche se poi la nostra vita ci porta altrove, in un altrove che può essere fisico o anche simbolico. Pertanto, la domanda di mia nonna resta valida ed è per me interessante pormela nuovamente in questi giorni della cerimonia di naturalizzazione francese di mia moglie, perché invita a riflettere su come ci definiscono le nostre radici e su quanto queste radici siano fluide. Se “appartenere” significa far parte di una comunità o di una storia, dobbiamo riconoscere che l’appartenenza non è mai fissa, ma cambia con il tempo, con le circostanze e con le scelte personali. Si espande, e procede come un dialogo costante tra passato e presente, tra chi siamo e chi scegliamo di diventare. Così, anche coloro che, come mia moglie, hanno vissuto l’esperienza della naturalizzazione, sperimentano un nuovo modo di appartenere, molto più ampio – non solo a una nazione, ma anche a un insieme di valori condivisi e di prospettive per l’avvenire.