Piano di Sorrento, il racconto del Prof. Ciro Ferrigno: “Chamois” fotogallery

Piano di Sorrento. Riportiamo il racconto del Prof. Ciro Ferrigno dal titolo “Chamois”. Un bellissimo ricordo legato ad uno dei suoi numerosi viaggi alla scoperta delle bellezze dell’Italia nei suoi 50 anni di gite: «Io che soffro di claustrofobia da tanti anni, rifuggo da cabinovie, seggiovie, ascensori e cose del genere, eppure quella volta, il 28 luglio 2000 in Valle d’Aosta mi trovai di fronte ad una scelta categorica: o in cabinovia o niente. Esiste un paesino nella Valtournenche che è raggiungibile solo con questo mezzo aereo, non esistono strade di collegamento, se non lunghi sentieri adatti agli escursionisti. È inutile dire che si tratta di un piccolo paradiso terrestre, dove non c’è inquinamento e la vita scorre serena, seguendo l’alternarsi delle stagioni. Si chiama Chamois ed è un comune autonomo, di poche centinaia di abitanti, che vivono in un isolamento dorato, tra fiori multicolori e prati verdissimi dove pascolano le mucche alpine, in completa libertà. Si trova a un’altitudine di 1896 metri, sul livello del mare e a pochi passi dal cielo.
Mi feci coraggio ed entrai nella cabinovia che è spaziosa e ariosa e che viene utilizzata anche per il trasporto delle merci. Saliva sfiorando le cime di maestosi abeti, aprendosi man mano alla veduta della valle alpina, dove scorre il torrente Marmore. Nel paese ci sono dei mezzi di locomozione, come quelli per la raccolta dei rifiuti, ma sono elettrici; il paesino ha qualche negozio, ci sono alberghi e ristoranti e ha un discreto movimento turistico che beneficia della specificità del paese, unico in Italia a non essere raggiunto da una rotabile. Le sue fontane sono di indicibile freschezza e l’acqua ha i riflessi bianchi delle stelle alpine e quelli azzurri delle genziane.
Da Chamois una seggiovia procede per i laghetti di Lod, a più di duemila metri sul mare, da dove è visibile il Cervino in tutta la sua maestosa bellezza. I miei compagni di viaggio andarono tutti ai laghetti e io rimasi da solo a godermi il silenzio e un po’ di vita di quel luogo meraviglioso. Le donne a fare la spesa, qualche vecchietta di ritorno dalla chiesa e capii che il borgo non rinunzia agli agi della modernità ma li seleziona, li passa al setaccio, facendo dell’isolamento una ricchezza aggiunta.
Mi fermai al bar per il caffè, andai a sedermi all’ombra, accanto a dei magnifici girasoli e per un’oretta ebbi modo di veder scorrere il tempo in maniera diversa, dove tutto è ordine e pulizia ed ebbi la sensazione di trovarmi in una sola grande famiglia, dove tutti si chiamavano per nome. L’isolamento comporta solidarietà tra i pochi abitanti, la capacità di soccorrere e aiutare senza aspettare che l’aiuto venga da fuori e pensavo al lungo inverno a quella quota, al freddo, alla neve, al gelo, all’isolamento nell’isolamento, a una vita da eremiti. Naturalmente, solo chi c’è nato, può vivere in un posto del genere.
Quando tornammo giù ad Antey St Andrè mi sentivo come un astronauta che sbarca dalla luna, fiero di aver sconfitto, per un poco, claustrofobia e vertigini, per amore della conoscenza».

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